[fi-lo-so-fì-a] |
SIGN Attività di pensiero che investe i fondamenti della realtà, i principi e le cause, le condizioni della conoscenza, i valori e i problemi legati all’agire umano; pensiero di una scuola filosofica; orientamento fondamentale; serenità |
voce dotta, recuperata dal latino [philosòphia], prestito dal greco [philosophía], composto di [phílos] ‘amico’ e [sophía] ‘sapienza’. |
Che cos'è la filosofia? E a cosa serve? Ad esaminare gli usi quotidiani di questa parola, si resta un po' interdetti: passiamo da una stoica sopportazione delle avversità della vita (“Devi imparare a prenderla con filosofia”) ad un'assertiva visione imprenditoriale basata su determinati principî (“Questa è la filosofia della nostra azienda”), per concludere con un vano e ozioso sottilizzare (“Sì, vabbè, se ci mettiamo a fare della filosofia non andiamo da nessuna parte…”). Insomma, uno spiazzante connubio di rassegnazione, pragmatismo commerciale e astrattezza teorica. Ma cosa ne dicono gli stessi filosofi? Pitagora – che secondo la tradizione fu l'inventore del termine e il primo a definirsi tale – non aveva dubbi sul ruolo del filosofo nel consorzio civile: a detta di Cicerone, egli paragonava il mondo a una sagra o fiera, a cui alcuni partecipano per coprirsi di gloria nelle gare, altri per arricchirsi comprando e vendendo, altri ancora, semplicemente, osservando con attenzione ciò che accade e cercando di capirne il senso e i motivi. Questi ultimi sono i filosofi. Non c'è dubbio, quindi: la filosofia non serve a farsi largo nella vita; è un'attività teoretica, contemplativa . In cosa, poi, esattamente consista tale contemplazione lo precisa Platone, che nel Simposio traccia un parallelismo illuminante tra filosofia ed Eros. Quest'ultimo è descritto come figlio di Poros (espediente, risorsa) e Penia (povertà, bisogno), concepito nel giorno della festa per la nascita di Afrodite. Data la sua origine, Eros più che un dio è un demone, intermedio tra uomini e dèi, sempre alla ricerca del bello ma perennemente insoddisfatto, «povero e scalzo» ma anche «avido d'intendere» e «dedito a filosofare per tutta la vita». Gli dèi, infatti, non filosofeggiano perché già sapienti, e neppure gli ignoranti lo fanno, perché non sanno di non sapere. Per filosofare, dunque, bisogna stare a metà, come Eros, che desidera la bellezza perché ne è privo ma ne sente il fascino. E siccome tra le cose più belle c'è la sapienza, Eros aspira al sapere, quindi è filosofo. Siamo approdati, chiaramente, alla definizione etimologica della filosofia: amore della sapienza. Aspirazione, cioè, non a questo o quel sapere o tecnica particolare, ma a ciò che costituisce il fondamento di ogni scienza, a partire da un atteggiamento di curiosità intellettuale che è quanto di più umano esista, ma allo stesso tempo, secondo Aristotele, ci rende simili a Dio: se, infatti, «la ragione è qualcosa di divino nell'uomo, la vita secondo ragione è divina rispetto alla vita umana» |
L’italiano ha una matrice letteraria: la sua storia come lingua della letteratura italiana precede di molto quella come lingua del popolo italiano. Questo però non significa che la lingua italiana, anche nella sua fase letteraria, non sia stata permeabilissima a splendidi usi popolari, in cui troviamo un’autenticità poetica che con mezzi più raffazzonati non è facile raggiungere.
Farsi schermo dai raggi del sole con la mano, coprirsi gli occhi da una luce troppo forte, proteggersi da un sole vivo con la mano aperta al sopracciglio: sono descrizioni lente, in cui si affastellano dettagli, non sempre trasparenti, con un profilo quasi inevitabilmente libresco. E questo è drammatico, perché l’azione che indicano invece è fra le più immediate, letteralmente. È un’azione che, quando la facciamo, non si pensa mai — e che però è rilevante, anche perché quando la fanno altre persone si nota sempre.
Belzebù
— Parole semitiche
[bel – ze – bù]
SIGN Nome di un dio del popolo dei Filistei, il cui culto era celebrato nella città di Ekron; nel secondo testamento è il nome dato al Principe dei Demoni; nella cultura popolare è un diavolo, o anche IL diavolo
dall’ebraico [Ba’al zĕbūb], nome con cui è riportata nella Bibbia una divinità filistea adorata a Ekron.
Con questa parola attraversiamo i secoli, sondiamo le paure e le corde più segrete e sporche che si tendono nel cuore dell’uomo, passiamo per un premio Nobel e sorvoliamo le tradizioni e le superstizioni che permeano le civiltà.
Ma partiamo da ciò che si sa sul dio che portava questo nome: era una divinità filistea, il cui culto si sviluppò particolarmente nella città di Ekron. Gli etimologisti non sono concordi sulla sua origine: c’è chi afferma che il nome fosse Ba’al zĕbūb, col significato di ‘Dio delle mosche’, con Ba’al che significa signore, padrone, di probabile derivazione accadica, e zĕbūb o z’bhubh, cioè mosca.
Alcuni si oppongono a una via etimologica così dritta, proponendo la possibilità che la versione data dalla Bibbia sia in realtà una sorta di ‘presa in giro’ del nome originario, che sarebbe invece Baʿal zĕbūl, in cui zĕbūl, da una radice semitica presente anche in accadico e in arabo formata dalle consonanti z-b-l, sta per principe o anche per colui che si eleva. Stando a quest’ultima ipotesi, dunque, Belzebù non significherebbe Dio delle mosche ma Principe Baal. E Baal in quanto nome lo conosciamo molto bene, poiché è presente in Annibale e anche in Asdrubale. Dobbiamo stupirci? Mica tanto: Annibale il Cartaginese, arcinemico di Roma, di chiamava così perché Cartagine era una città fondata da coloni fenici, popolo semitico anche detto dei cananei, vicini di casa dei filistei.
Tornando al dio Ba’al zĕbūb, va detto che non era visto di buon occhio dagli Israeliti, ovviamente. Lo dimostra benissimo un episodio biblico, narrato nel Libro dei Re, in cui il sovrano d’Israele Acazia manda degli emissari a interrogare l’oracolo di Ba’al zĕbūb a Ekron per sapere se e quando si rimetterà da una caduta dal tetto. Il profeta Elia incontra i messaggeri per strada e, quando viene a sapere il motivo del loro viaggio, non la prende tanto bene. Insomma, andare a rivolgersi a un altro dio…! Inaudito! Fa fare loro dietrofront e li manda a annunciare al re la ferale notizia della sua paralisi totale e permanente. Così impara.
Nel secondo testamento, complice un passo di Matteo in cui Gesù scaccia i demoni e viene frainteso dai benpensanti, Belzebù, o Beelzeboul, come viene chiamato nella traduzione dei Settanta, diventa il principe dei demoni, e quindi un altro nome per Satana, l’avversario, il Diavolo. Da lì la tradizione cristiana ha fatto fiorire una demonologia complessa, che ha permeato le tradizioni e le superstizioni europee nei secoli, fino a far diventare Belzebù anche lo spauracchio dei bambini che non vogliono comportarsi bene. Quando il carbone della Befana non basta si chiama Belzebù, insomma…