Quando
mio nonno sbarcò a Nuova York per vivere il sogno americano aveva 22
anni, sapeva leggere e scrivere, era contadino e di “razza italiana
meridionale”, secondo i registri di Ellis Island. Era arrivato a bordo
della Providence, salpata da Napoli il 23 settembre 1923. Aveva in tasca
20 dollari.
Secondo l’ISTAT, solo nel
1916 hanno lasciato l’Italia 872.598 italiani. Molti di essi hanno
attraversato l’oceano per non tornare più indietro: sono rimasti in
Argentina, in Brasile, negli USA, o in Australia, hanno trapiantato il
loro cuore e le loro lingue e sono restati lì, nella terra che li aveva
accolti a volte senza troppo entusiasmo. Di molti di loro si sono perse
le tracce.
Visualizzare nella nostra
mente gli emigranti di quel tempo, o anche quelli dell’ondata migratoria
successiva, del Secondo Dopoguerra, richiede un grande sforzo di
immaginazione. Molti di essi erano di statura più bassa rispetto agli
italiani di oggi. Molti partivano con la valigia di cartone con dentro
pochi ricordi, con 20 dollari in tasca, 3 o 4 figli e poco più. Oltre
alla miseria, gli italiani portavano con sé una grande dignità, ricordi,
ricette, immaginette sacre, e lingue: questi nostri connazionali
comunicavano tra loro usando le nostre lingue regionali (comunemente
conosciute come dialetti). Parlavano veneto, siciliano, abruzzese,
calabrese, piemontese e così via. L’italiano non lo conoscevano quasi.
Pochissimi erano andati a scuola, e se lo avevano fatto ci erano rimasti
per un paio d’anni al massimo.
Che ne è stato di loro? Che ne è stato delle loro lingue?
Una
volta arrivati a destinazione, i nuovi immigrati cercavano i
compaesani, se ce n’erano. Se l’intenzione era di restare, almeno per un
po’ di anni, la prima cosa che tentavano di fare era imparare la lingua
locale. Gli uomini, che andavano “a giornata” con i compaesani e
avevano capimastri italiani, si trovavano più spesso a parlare la
propria lingua madre. Erano loro a preservare il patrimonio linguistico,
sebbene in forma lievemente diversa dall’originale: era frequente la
formazione di varietà miste, come il celeberrimo broccolino
di New York, un misto di varietà regionali italiane, inglese americano e
slang newyorchese. Le donne imparavano più in fretta la lingua ospite,
ed erano per questo promotrici del cambiamento linguistico, come spesso
avviene.
Cosa è successo, dunque, al
siciliano parlato da Turi, emigrato in Brasile dalla Sicilia nel 1960
all’età di 18 anni? Ha continuato, Turi, a parlare siciliano ai suoi
figli, o è passato al portoghese? Il suo siciliano è come quello parlato
oggi in Sicilia? È più arcaico? O è cambiato completamente, a contatto
con il portoghese?
Il
gruppo di ricercatori italiani in Olanda da me coordinato sta cercando
di scoprirlo tramite un progetto che ha come target l’emigrazione
italiana in Brasile, Argentina, Stati Uniti e Canada; il gruppo di
ricerca si propone di analizzare e capire i meccanismi del cambiamento
linguistico causato dal contatto tra le lingue. L’assunto di base è che
lingue simili in contatto tendano a cambiare poco, strutturalmente. Se
il cambiamento c’è, è significativo. Prendiamo ad esempio il napoletano:
essendo esso strutturalmente molto simile allo spagnolo ci si aspetta
che i cambiamenti indotti dal contatto tra le due lingue siano molti
meno rispetto a quelli che intervengono quando il napoletano incontra
l’inglese, una lingua abbastanza distante dalla struttura romanza.
Controllare
cosa accade quando due lingue molto simili entrano in contatto è come
mettere il cambiamento linguistico sotto la lente di un microscopio:
saltano fuori dei dettagli che “a occhio nudo” non vedremmo, dettagli
che si rivelano essenziali per capire come funziona il linguaggio umano.
Le lingue regionali italiane sono preziose e uniche perché sono tante,
molto simili strutturalmente, e molto presenti in Paesi come l’Argentina
e il Brasile, dove si parlano altre lingue della stessa famiglia. Esse
costituiscono dunque un laboratorio naturalistico a cielo aperto, che
può svelare meccanismi linguistici ancora sconosciuti.
Per
poter studiare tutto questo il primo passo è rintracciare i parlanti,
gli emigranti italiani nelle Americhe, ma questo non è affatto semplice.
Esistono, sì, molte associazioni. Esistono gli Istituti Italiani di
Cultura, a cui fanno capo principalmente gli “expat”, i nuovi emigranti,
con un livello di istruzione molto alto e un’ottima conoscenza
pregressa della lingua del luogo. I nostri bisnonni e i loro discendenti
non hanno mai frequentato gli Istituti Italiani di Cultura, però. Si
sono messi a lavorare, hanno formato delle comunità, hanno continuato a
parlare la lingua madre, e spesso hanno troncato tutti i rapporti con la
terra d’origine. Come raggiungerli?
Poiché
noi del primo mondo crediamo che tutto si possa risolvere con la
tecnologia, il primo passo per cercare questi emigranti è stato quello
di creare un atlante interattivo per effettuare una raccolta di dati
online. L’idea era di contattare tutte le associazioni, gli Istituti, i
consolati e così via, e chiedere ai giovani discendenti di registrare i
loro nonni per poi caricare le registrazioni sul sito. In questo modo
speravamo di individuare i parlanti con il giusto profilo, da andare a
intervistare durante la fase di ricerca sul campo.
L’atlante era
aperto a tutti, anche agli italiani che volessero registrare il parlato
dialettale (purché non si trattasse di poesie e proverbi). La risposta
dell’Italia è stata molto forte, ma da oltreoceano nisba, anche perché i
mezzi tecnologici a disposizione nei paesini sperduti del Brasile non
sono gli stessi che abbiamo noi.
Non ci
restava dunque che andare all’avventura. E così è stato. Siamo andati
lì, in Argentina, in Brasile, a New York, a suonare ai campanelli delle
associazioni. Con l’aiuto di colleghi del posto, di parroci, di
pronipoti e parenti italiani, abbiamo rintracciato alcune famiglie di
emigranti, e con il passaparola ne abbiamo trovate altre.
Nel
corso della ricerca effettuata sul campo nella primavera dello scorso
anno siamo riusciti a intervistare 50 italiani emigrati in Argentina, 47
in Brasile, 27 in Canada e 58 negli USA. Il Covid ha bloccato la
seconda fase di ricerca sul campo, prevista per la primavera di
quest’anno.
Prima di iniziare
l’elicitazione sperimentale dei dati per la nostra ricerca abbiamo
chiesto ai nostri intervistati di prima generazione di raccontarci il
loro arrivo in terra straniera. Tra i ricordi, tutti molto commoventi,
c’è quello di Maria (nome fittizio), partita da un piccolo paesino
dell’Aspromonte per andare a Buenos Aires. Maria ricorda ancora oggi,
con colori vivissimi, il suo viaggio. Ci racconta che durante la
traversata che l’avrebbe portata in Argentina “parlando co crianza,
rovesciava e rovesciava” perché aveva il mal di mare. Suo padre era
partito nel ’48, lei “stava sola sola sopra o barco; u manciari un mi
piacìa, magnava solo u celato”. E poi c’è Giovanni (nome fittizio),
partito dal Veneto per Porto Alegre, che ci racconta di quando “se g’ha
partì da Italia”, e giù con un misto di veneto e portoghese, a formare
una splendida litania del tempo.
Tutti i
racconti degli emigrati italiani in America sono disponibili sul sito
dell’atlante interattivo, che nel frattempo si è molto popolato e
raccoglie oltre 300 registrazioni, a questo indirizzo: https://microcontact.hum.uu.nl/#home. I risultati preliminari e le attività del progetto sono sul sito del progetto, a questo indirizzo: https://microcontact.sites.uu.nl/.
Sull’atlante
potrete ascoltare le voci, le lingue, le storie. Si tratta di un
archivio ancora incompleto ma preziosissimo di lingue quasi scomparse,
di racconti di epoche lontane, fotografie vocali di un tempo che non c’è
più. O che forse sta ritornando.
Che parola difficile! Proprio per questo è così accattivante, e usarla attira l'attenzione come lanciare un petardo in salotto. Anche perché è una parola che appare difficile ma non astrusa: la sua composizione greca è trasparente — autós 'da sé', poíesis 'creazione'. E il significato coglie un tratto affascinante e caratterizzante dei sistemi viventi.
Infatti si tratta di un termine primariamente riferito all'ambito della biologia, anche se ha un respiro filosofico. Viene coniato in un saggio dei biologi cileni Humberto R. Maturana e Francisco J. Varela del 1980, Autopoiesi e cognizione — la realizzazione del vivente. L'intento è quello di cogliere un tratto necessario e sufficiente per definire un sistema vivente, e tale tratto è l'autopoiesi. La capacità di ridefinirsi continuamente in uno spazio fisico riproducendo sé stessi e mantenendo invariata la propria organizzazione interna; una capacità determinata dall'organizzazione dell'entità autonoma che è il sistema vivente, differenziato in unità composite con relazioni locali.
Non si deve fare finta che sia una nozione facile. Si può però fare qualche approssimazione esplicativa, e qualche esempio.
L'autopoiesi, in quanto autocreazione che scaturisce da un'organizzazione interna tesa a conservarsi, ridefinirsi e riprodursi davanti ai mutamenti dello spazio fisico, è la capacità di avere e mantenere un'identità. Caratterizza tanto l'umano quanto la sua singola cellula, questo è evidente; ma è una nozione che è discusso si possa spingere fino alle organizzazioni sociali (le società umane sono sistemi biologici?).
Ora, un termine così affascinante, anche se nasce con l'ambizione di un uso scientifico rigoroso, fa presa per estensione in discorsi più profani che ne vogliono cogliere la suggestione in maniera più disinvolta: la voglia di usare parole grosse a volte è troppa, specie se sono belle.
Così, usando questo termine in maniera euristica (bel modo per dire 'accettabilmente alla carlona, non mettiamoci a fare le pulci'), potremmo notare l'attitudine autopoietica della città romana, capace di conservarsi ridefinirsi e riprodursi coi suoi anfiteatri, terme, cardi e decumani dalla Britannia alla Siria, alle capacità autopoietiche della società borghese puritana che vediamo in Robinson Crusoe, che si stabilizza e replica anche sull'isoletta alla foce dell'Orinoco a partire da un sol uomo, del sistema di diritto che si rivela autopoietico producendosi e conservandosi attraverso il diritto, arrivando perfino all'autopoiesi della fiaba tradizionale, che si adatta di tempo in tempo senza autore.
Le parole che s'inventano e piacciono non restano giocattoli nostri: passano di mano in mano, e le persone finiscono per usarle nelle maniere più impensate. Così, davanti a una parola del genere, non c'è che da augurarsi che la pratica di un bell'uso, continuo e diffuso, le dia ancora più prontezza. Non sono forse autopoietiche anche le parole?
Carlona
car-ló-na
Significato Solo nell'espressione 'alla carlona', superficiale, trascurato, fatto in modo grossolano
Etimologia dall'antico francese Charlon, caso obliquo di Charles, riferito a Carlo Magno.
Parole di questo tipo custodiscono la squisita sorpresa dell'oggetto prezioso trovato al mercatino delle pulci. Sotto l'immediatezza di un uso colloquiale e di una sonorità espressiva, protette nel bozzolo di una locuzione cristallizzata, parole come questa testimoniano una continuità culturale ultramillenaria.
Qui non ci dobbiamo domandare chi sia la giunonica signora in questione, la Carlona. La carlona che troviamo nell'espressione 'alla carlona' è infatti la maniera di Carlone, e il Carlone in questione è addirittura Carlo Magno. Ma perché Carlone?
Non siamo davanti a un accrescitivo. Solo, la grammatica dell'antico francese conservava le declinazioni — in una veste più semplice rispetto a quelle latine, con soli due casi. Nel caso retto (più precisamente cas sujet, con le funzioni del nominativo) il nome del re era Charles, in quello obliquo (o cas régime, con tutte le altre funzioni logiche), Charlon. Ed è la sua eco che ci è qui giunta. Qui, Carlone in un affresco ariostesco di Julius Schnorr von Caroesfeld.
Ma la vera domanda è: perché il signore che ha conquistato l'ambito onor del rinnovato Impero dovrebbe ispirare il significato di una maniera raffazzonata, superficiale, senza cura? Non è un po' irriverente, pur dopo dodici secoli?
Ebbene lo è, e guai a chi parla in questi termini dell'Imperatore.
Secondo la spiegazione tradizionale è stata la figura bonacciona che il re Carlone aveva preso nei tardi poemi cavallereschi, frugale e perfino goffa, ad aver plasmato la locuzione 'alla carlona'. In alternativa, la maniera di re Carlone poteva essere intesa come maniera antica, e quindi più bruta e disattenta. Approdi più recenti però raccontano altro.
Questa locuzione appare per la prima volta in testi quattrocenteschi col significato di 'in abbondanza' — ed è più che probabile che sia questa la chiave della carlona. L'abbondanza è sbadata, trascurata senza risparmi, e se perde il tratto di larghezza resta solo la superficialità frettolosa e grossolana con cui è colorato il nostro 'alla carlona'. Abbondanza leggendaria e proverbiale noncuranza alla corte di Carlone.
Così stendiamo una relazione obbligatoria un po' alla carlona, per l'ennesima volta ripariamo la perdita del rubinetto alla carlona, e l'amministrazione organizza il festival alla carlona, prendendosi il merito del successo inatteso.
22 Novembre 2020
avviso ai naviganti TUTTI COLORO CHE a Quelli che il calcio avessero sentito dire che la RUPE TARPEA si troverebbe a Sparta sappiuano che invece é italianissima: Rupe Tarpea - Wikipedia it.wikipedia.org › wiki › Rupe_Tarpea La rupe Tarpea (latino: Rupes Tarpeia o Saxum Tarpeium) è la parete rocciosa posta sul lato meridionale del Campidoglio a Roma, dalla quale venivano gettati i bambini deformi
Il termine, complice la pandemia, è entrato nel linguaggio quotidiano ma da dove ha origine?E in ambito economico cosa indica? - Diana Cavalcoli /CorriereTv
Il termine «Resilienza», complice la pandemia, è entrata nel linguaggio quotidiano ma da dove arriva la parola? Ce lo spiega il professor Carlo Salvato del dipartimento di Management dell’Università Bocconi di Milano analizzando le caratteristiche che oggi rendono le aziende davvero resilienti alla crisi economica.