Corteggiamento
[cor-teg-gia-mén-to]SIGN Complesso di azioni con cui si cercano i favori di qualcuno, specie amorosi; mettersi al seguito di un potente, specie in una cerimonia
da [corteggiare], derivato di [corte].
Stupefacente:
la corte è un luogo e un insieme di persone che da molto non esiste più
nella forma in cui si è affermata nel nostro immaginario, ma non solo
la sua suggestione
continua ad affollare i nostri discorsi: ci rifacciamo comunemente
anche alle sue dinamiche. Rimane un luogo comune in cui non possiamo
fare a meno di incontrarci, un riferimento che non possiamo fare a meno
di citare. Pensiamo al comportamento cortese, all'adulazione del
cortigiano, al chiasso del
corteo, e venendo a noi anche alle maniere del corteggiamento.
'Corteggiare' è chiaramente un derivato di 'corte', con quel suffisso -eggiare
che nella nostra lingua segna giusto il verbo che deriva da un nome.
Sinteticamente, quindi, il corteggiare ci descrive un fare la corte, un comportarsi da corte. E come si comporta la corte?
Intorno al centro di gravità di una persona che spicca - per potere, di solito, ma anche per prestigio, o per desiderabilità - si raccoglie una corte che la appoggia, che la sostiene e consiglia, che la compiace e diverte, che le dà
lustro, che la ossequia e riverisce schiettamente, o per dovere, o in cerca di protezione,
o di favore. Insomma, in chi fa la corte troviamo impiantata, su una
base cavalleresca, l'attitudine a fare, a essere quel famoso spettacolo
d'arte varia di cui canta Conte - che quindi è il corteggiamento.
Lo scrittore famoso cede al corteggiamento appassionato della casa editrice, il collega abile riesce a concludere l'affare con un finissimo corteggiamento, e facciamo spazio al corteggiamento fermo e
discreto che ci sorprende. Attenzione, tensione, cavalleria, cortesia: questo troviamo nel corteggiamento, il cui potere peculiare non solo si volge a qualcuno che è già un centro di gravità, ma fa diventare qualcuno un centro di gravità.
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Conversione
[con-ver-sió-ne]SIGN Rivolgimento, mutamento di direzione di un corpo; mutamento interiore; cambio, trasformazione
dal latino [conversio], derivato di
[convèrtere] 'rivolgere, dirigere, cambiare, distogliere', composto di
[con-] e [vèrtere] 'volgere'.
Stili di vita, credo religiosi, file informatici. In questi ambiti le conversioni frequentano i nostri giorni, in maniera costante. Tutti casi interessanti, ma è importante cercare di comprendere quale sia la possente immagine che respira sotto a questi
significati.
La conversione nasce in una
dimensione spaziale: è il rivolgimento, il mutamento di direzione di un
corpo. Ad esempio, anticamente si chiamavano conversioni le rivoluzioni dei pianeti intorno al sole; l'auto dei fuggitivi riesce a seminare gli inseguitori con conversioni temerarie; e alla parata militare i soldati danno prova dell'ordine della loro
disciplina con strabilianti conversioni.
In quel prefisso 'con-' sta tutta la magia:
la conversione non è il mutamento di direzione della palla da biliardo
che urta una sponda e piano si ferma. Chi o ciò che compie la
conversione non perde forza, non perde pezzi. La conversione è un mutare
di direzione (vertere) raccolto e intero (con-) - niente
si crea, niente si distrugge, tutto si trasforma. L'adesione nuova a
dottrine o abitudini è perciò una ricca specie del genere della
conversione.
La conversione del collega alla
corsa prima di colazione lo segna profondamente nel corpo e nella mente -
non è mai stato così energico, non è mai stato così sereno; vedendo
l'amico sfoggiare il nuovo Mac gli chiediamo quando si è convertito; e
la conversione religiosa vissuta con trasporto lascia perplessa la
famiglia.
Una parola energica - esterna, nei moti celesti e nella trasformazione dell'energia elettrica, e interna, nei mutamenti delle idee e delle virtù.
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Catafascio
[ca-ta-fà-scio]SIGN Nella locuzione 'a catafascio' in rovina, a rotoli, ma anche alla rinfusa, sottosopra
composto del greco [katà] 'giù' e [sfascio].
Questa parola nasconde una curiosità incantevole.
La usiamo comunemente nella
locuzione avverbiale 'a catafascio', che in maniera intensa ed enfatica
ci permette di descrivere qualcosa che va a rotoli, in disordinata
rovina, o che si ammucchia alla rinfusa, senz'ordine: il capanno di cui
dovevamo sistemare il tetto è andato irrimediabilmente a catafascio, per
impazienza abbiamo buttato a catafascio la partita a scacchi che
stavamo vincendo, ci ritroviamo l'armadio semivuoto a forza di mettere a
catafascio i vestiti sulla sedia della camera, e l'abile dimostrazione
dell'amico che si diceva in grado di trarre via la tovaglia da sotto le stoviglie del tavolo
apparecchiato è finita a catafascio in maniera spettacolare.
Ebbene, il catafascio (o 'scatafascio', se preferiamo un gusto più marcato e popolare) non è una parola normale. È una chimera,
una parola ibrida, formata nel Quattrocento da un elemento italiano (lo
'sfascio') e da un elemento greco ('katà', col significato di 'giù').
C'è poco da fare, dev'essere stata inventata di sana pianta, e il risultato è
formidabile, sia a livello sonoro (perché il catafascio riempie la bocca e rende
il suono di un crollo complesso) sia a livello concettuale, perché
direziona lo sfascio, il suo disordine, la sua rovina, secondo la
gravità.
Sono proprio queste parole a farci
capire che materia viva sia la lingua, e quanto i processi di formazione
di una bella parola possano essere insospettabilmente arbitrari.
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Perissologia
[pe-ris-so-lo-gì-a]SIGN Enunciazione superflua di cose già espresse
dal greco [perissologhìa] ‘abbondanza di parole
superflue’, derivato da [perissològos] ‘ciarliero’, composto a sua
volta da [perissòs] ‘che va oltre la norma’ e [-loghìa], derivato di
[lògos] ‘parola’.
Prima di poterci immergere nella definizione della perissologia
è necessario dare un’occhiata, almeno da lontano, a quelle che Herbert
Paul Grice – filosofo del linguaggio del secolo scorso – ha individuato
come massime conversazionali, cioè dei principi che regolano le conversazioni tra persone. Esse sono quattro: quella della qualità (il contributo alla conversazione
deve essere vero, basato quindi sulla realtà delle cose); della
pertinenza (si deve essere attinenti all’argomento della conversazione);
del modo (bisogna essere chiari, non
ambigui
nel parlare); quella della quantità (non si deve dire meno di quanto
sia opportuno, ma neanche di più). Ovviamente queste massime vengono
continuamente violate, ma grazie alla cooperazione tra i parlanti la comunicazione non fallisce; ed è proprio la violazione della massima della quantità che fa da sfondo alla perissologia.
Spiegandola ho detto che si deve
essere «chiari, non ambigui nel parlare». Ma la non ambiguità non è
forse sottintesa nella chiarezza? Eccola, la perissologia:
totalmente superfluo specificare che l’oscurità del linguaggio non è
propria della chiarezza, però l’ho fatto comunque. Perché? Pare banale dire che lo scopo è quello di ribadire il concetto, ma è proprio così: la definizione della massima era già ialina, ma
perché non sottolinearla ancora di più?
Un esempio letterario della perissologia lo possiamo trovare nel verso finale del canto XV dell’Inferno dantesco: «Poi si rivolse, e parve di coloro / che corrono a Verona il drappo verde / per la campagna; e parve di costoro / quelli che vince, non colui che perde». Dopo esserci presi un momentino per apprezzare la bellezza di questi versi (si noti, ad esempio, l’omeoarto tra coloro e costoro:
ripetizione di suoni a inizio di parola come l’allitterazione, ma nel
caso dell’omeoarto l’uguaglianza tocca tutta la Prima sillaba), torniamo
a bomba sulla perissologia: si parla di Brunetto Latini, il maestro di Dante, che andandosene in tutta fretta pare corra come se
fosse al palio di Verona. Per Dante la fretta toglieva dignità
alle persone, ma per non rincarare la dose al povero Brunetto, che già è
condannato nel girone dei sodomiti, Dante specifica che, tra i
corridori, lui sembra il vincitore, mica il perdente. Certo, il vincitore per definizione non può
essere un perdente, ma meglio ribadire – anche se, quando si parla di poesia, bisogna sempre prendere in considerazione anche l’ipotesi della necessità metrica.
Spesso la perissologia si
esplica attraverso l’asserzione di qualcosa e la successiva negazione
del suo contrario (detto così suona più complesso di quanto sia in
realtà): «In questa stanza ci voglio delle pareti chiare, non scure!»,
oppure «Ragazzi, guardate che la tesina deve essere bella corposa, mica
due paginette!».
Attenti, quindi: lo sguardo acuto di Grice vi scruta, dite quanto basta, non troppo (e, se proprio non riuscite a trattenervi, che quel troppo sia motivato!)
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