La parola del giorno è
[lèm-me]
SIGN Nella locuzione 'lemme lemme', adagio, con flemma.
forse dal latino [solèmnis] 'solenne'.
È all'inizio del Seicento che il lemme, anzi il lemme lemme fa la sua comparsa sulla scena dell'italiano, nell'
amena opera di Girolamo Leopardi
Capitoli e canzoni piacevoli (in particolare, nella descrizione di un
idillio da taverna). Il lemme lemme ha un passo lento, procede
adagio
adagio; non per pigrizia o svogliatezza, non per impedimento o
sfiancamento. È determinato da una serenità che esilia la fretta, da una
mente
tranquilla: l'assenza di frenesia nello spirito si ripercuote nella
flemma degli atti.
Se ci domandiamo da dove vien fuori
questa espressione, la risposta che gli studiosi danno è una, per quanto
scricchiolante: è probabilmente un derivato del latino
solemnis (cioè 'solenne'), che ha subito un'
aferesi della prima sillaba (si sarebbe potuto dire 'solenne solenne'), e che comunque è stato adattato col metro dell'
onomatopea — mutando la durezza febbrile di una 'n' dentale nella calma morbidezza di una 'm'
labiale.
Il carattere descritto dal lemme lemme avrebbe quindi la maestosa
tranquillità dell'atto solenne, del gesto rituale, colto non nella sua
carica pesante di potere
esoterico,
ma nella sua olimpica distensione, nel suo prendersi il tempo che ci
vuole secondo metri suoi. La tranquillità del lemme lemme è
smaliziata,
disinvolta — una
declinazione sorridente della serietà del solenne.
[pu-ta-tì-vo]
SIGN
Che è creduto tale pur senza esserlo, apparente; in diritto, di
situazione giuridica che non sussiste ma è creduta sussistente
dall'interessato
voce dotta recuperata dal latino tardo
[putativus] 'apparente, supposto', da [putatus], participio passato di
[putare] 'credere'.
Il
putare latino risuona in
una quantità di parole italiane molto diverse fra loro: dall'imputato
alla disputa, dalla reputazione alla computazione al deputato. Pur se in
sfaccettutature delle più diverse, ci parla sempre di una
valutazione, di un conto, di una
considerazione — infatti il
putare non è un verbo dallo smisurato bacino di significati: sono
fertili
ma piuttosto circoscritti, ed è in base al prefisso che cambiano volto.
Qui però, col putativo, siamo davanti a un derivato diretto e
scevro da prefissi, che ci rende il
putare in purezza (l'unico altro caso rilevante è il
putacaso ).
[rà-da]
SIGN Insenatura naturale o artificiale, adatta al riparo delle navi; rifugio
attraverso il francese [rade], dall'inglese antico [rade].La rada è un'insenatura, naturale o artificiale, martittima o lacustre,
che volentieri in fondo ha un porto, e in cui le imbarcazioni possono
trovare riparo da onde e correnti. Lo possiamo prendere con la
precisione concreta del termine tecnico, ma è
suggestiva,
e invita usi figurati. Così certo, nella rada cristallina si vedono
barche come sospese che proiettano ombre sul fondale, e la rada si
affolla di barche che attendono il tempo si plachi; ma si può anche
parlare di come nel
frangente difficile ripariamo nella rada di un gruppo di amici, di come ci si riposi serenamente nella rada della
pensione, o dell'amico che temporeggia in rada finché può evitare di sbilanciarsi.
[re-pen-tà-glio]
SIGN Grande rischio o pericolo
probabilmente dal francese antico [repentaille], derivato di [repentir] 'pentirsi'.
A volte si può notare, con
sopracciglio alzato e sorriso olimpico, che la pigrizia insacca certe
parole in espressioni cristallizzate da cui poi non riescono più a
uscire. Si sa, oggigiorno, la decadenza. Ebbene, in realtà è un
fenomeno che conoscevano benissimo anche i nostri antichi nonni: 'mettere a repentaglio' è una locuzione attestata nel Trecento,
mentre per avere un'attestazione di 'repentaglio' fuori da espressioni del genere (in un dizionario, peraltro) si
deve aspettare l'Ottocento. Insomma, ci sono voluti quattro-cinquecento anni per un
tentativo
di animare o riconoscere animata una parola che in italiano è nata
fossile. Tentativo non riuscitissimo, visto che tuttora trovare
'repentaglio' da sé è più raro che trovare parcheggio quando c'è la
partita.
[al-tró-ve]
SIGN In un altro luogo
dal latino [aliter ubi] propriamente 'diversamente dove'.
Se 'ove' ci suona davvero ricercato, di un tono poetico o aulico che sconfina spesso nell'
affettazione, 'altrove' ci suona invece come una parola delle più consuete e amichevoli. Eppure, anche se è usata universalmente in maniera
disinvolta, ha le sue cifre sottili.
Innanzitutto è una parola senza parole
sinonime — almeno attualmente: in antico è esistito un 'altronde' che oggi troviamo nel
d'altronde
come si trova la conchiglia sulle Dolomiti. È quindi una freccia unica
al nostro arco (pure se si può sostituire con qualche perifrasi), sia
che si stia chiacchierando del negozio che si è trasferito, sia che si
discuta delle fonti in cui si può
reperire un'informazione per pochi. E non solo questa comunanza di
contesti si adegua a un tono di grande
eleganza
(pensiamoci bene: è letteralmente 'un altro ove'), ma manifesta sempre
una nota positiva — peraltro in una maniera che con la nostra
sensibilità attuale è particolarmente simpatica.