C'era
una volta...
Un re! Diranno subito i miei piccoli
lettori
E invece no. Avete sbagliato, c'era una
volta una scodella di terracotta. Non era una terraglia di lusso ma
una di quelle tirata via alla buona e poi messa in vendita sui
banchetti di fianco al Tempio d'Apollo, per gabbare i turisti di
bocca buona che cercano qualcosa a poco prezzo che non faccia troppo
volume nel bagaglio a mano durante il viaggio di ritorno, in quel
paesino con troppo poco sole dove lo piazzano nel centro del tavolino
dove si appoggia il servizio da tè da servire agli amici...
Non so come esattamente andassero i
fatti, ma sembra che uno di questi giovani turisti, uno di quelli che
vedi in giro con lo zaino in spalla, i calzini bianchi corti dentro
grossi sandali da montagna e sempre con una grossa bottiglia d'acqua
per le mani, che forse gli sembra che possano rimanere esausti
spossati e distesi sul ciglio della strada senza un cristiano che gli
porti un bicchier d'acqua...
insomma, per fartela breve, lei aveva
comprato questa piccola scodella smaltata di bianco all'esterno
mentre all'interno correvano delle greche elementari tutte intorno ad
un fiore centrale, stilizzato, azzurro, una parodia dell'arte della
ceramica siracusana con pezzi dipinti con arzigogoli così antichi
che solo a guardarli ti pare di sentire le grida greche dell'agorà.
Che in realtà ci sono perchè oggi si chiama mercatino di Ortigia,
le grida ci sono, hanno sostituito i canti con cui i fruttivendoli di
una volta invitavano i passanti a comperare, ma le grida ci sono
ancora...
Lei aveva comperato un sacchetto di
pistacchi siciliani là in fondo al mercato poco prima di sbucare di
fronte al mare di fianco alla bottega dei Borderi, rumorosi venditori
d'olio, formaggi e di panini assortiti che mentre servono le persone
gridano, cantano, ballano andando in giro a far assaggiare le loro
prelibatezza in uno scintillìo di dolce sicilia che affascina i
turisti che arrivavano a frotte. Il venditore
di polveri, invece se ne stava in silenzio in fondo al suo carretto
pieno della sua mercanzia in una pianura di colori fatta a
scacchiera, con le polveri più sopraffine, il coriandolo, il cumino,
il cardamomo dentro scatole quadrate...
Poi di fianco, montagnole di datteri,
fichi secchi, frutta candita, semi, frutta fresca, e ammonticchiati
alla buona, mandorle, castagne, noci e pistacchi, tutto in un
turbinio di odori, colori accompagnati dal silenzio del siracusano
che ti serve con educazione e poche parole. La caccarara contro il
silenzio mistico delle antiche spezie, ma questo i turisti non lo
capiscono...
Li seguivo sulla strada ombreggiata che
portava alla Marina osservando la loro fresca felicità amorosa. Lei
aveva un improbabile vestito rosso lungo con fiorellini stampati e
ondeggiava tra la conversazione al telefonino in una mano mentre
l'altra attingeva pistacchi dalla scodella che l'altro teneva in
equilibrio come fosse un vassoio sulla mano stesa verso la compagna
che attingeva allegra, e poi con contorsioni da equilibrista apriva
dai gusci e uno a te uno a me si nutrivano d'amore tra un bacio e
l'altro.
Eros e Thanatos.
Eh sì, perchè tanto amore, tanti
baci, tanti contorcimenti, portarono irrimediabilmente al disastro e
sciaff, con un tonfo ciocco la scodella cadde a terra.
Seguì un silenzio incredulo, mentre si
fermarono solo per un attimo, poi raccolsero i pochi pistacchi sparsi
al suolo e ripresero il loro cammino ridanciano.
- Ehi, ma la scodella, la lasciate lì?
Si girarono temendo il rimprovero per
aver insozzato il suolo, ma figurati! Quando si resero conto che non
sarebbe successo nulla, lui si strinse nella spalle e se ne andarono
via con passo deciso.
Rimanemmo lì, io e la scodella che non
era nemmeno esplosa con l'arrivo a terra, come avrebbe fatto un vetro
nobile o una porcellana aristocratica. Questa invece era una
terracotta proletaria e si era spezzata quasi in silenzio quasi per
il dolore, ma i pezzi erano tutti lì, e mi guardavano dolenti. Io ho
immediatamente recepito quel grido di dolore e ho trovato solo un
foglio di giornale in cui ho avvolto tutto per portarmi a casa quel
disastro tentando di porvi rimedio. La carta era leggera, i pezzi
pesanti, così che dovetti stringermi il pacco per non lacerare la
carta e facendo così sono arrivato a casa con il vaso contro il mio
cuore, che da gesto di protezione ormai era diventato un segno
d'affetto.
Ho preso l'Huhu, che adesso si chiama
in un'altra maniera perchè lo vendono i cinesi e in pochissimi
minuti ho rimesso insieme i cocci, ma ahimè ho scoperto che ne
mancava un pezzo, un triangolino senza importanza tanto che mi era
sfuggito all'esplorazione fatta in strada...
Dopo mezz'ora sono tornato in terrazza
dove avevo messo la scodella incollata a rinforzarsi e ho scoperto
che il lavoro, benchè ben fatto restituiva una ceramica triste,
rabberciata, recuperata, che aveva perso la bellezza della prima
scelta, e pure lei mi guardava intristita, come per dire, lascia
perdere, lo sai come vanno queste cose: se invecchi o ti rompi, sei
da buttare...
E invece no, caro mio! Se conosci
Ashigata Yosgimasa, famoso shogun Muromachi, vissuto verso la fine
del Quattrocento a Kyoto, sai perfettamente che non va così. Lui
abdicò e diventando monaco Zen e si ritirò nella sua dimora
trasformandola in Padiglione Argentato dove inventò la cerimonia del
tè. Non contento praticò la tecnica del Kintsugi che è l'arte di
riparare la ceramica con l'oro, restaurando oggetti anche antichi
senza nascondere le vecchie fratture ma sottolineandole con lacca
dorata, lasciando un senso di irreparabile ma da cui si potrebbe
rigenerare lo spirito con un nuovo progetto estetico.
Ho comprato un pezzo di anilina per
chiudere il buco e il resto l'ho coperto con l'oro applicando il
Wabi-sabi della filosofia Zen con tre concetti fondamentali, il
Mushin che libera la mente mentre lavori, l'Anicca che riflette
sull'esistenza transitoria, evanescente e inconsistente di tutte le
cose, e il Mononoaware che è una malinconia per le cose che apprezza
la decadenza si arriva ad ammirarne la bellezza della rottura che
rende unico e irripetibile l'oggetto che una volta riparato ha una
vita nuova, ne serba il ricordo e parla di fragilità, di
sgretolamento, di caducità, declino e di rinascita.
Ecco, fatto, finito il lavoro, sono
certo che nessuno di noi due finirà in un Museo, nè la scodella
riparata e nemmeno io che forse tra un poco verrò ricoverato tra i
dementi che parlano con gli oggetti.
Invece lei, la scodella, non mi parla
ma mi sorride soddisfatta.
Vincent
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