Oclocrazia
o-clo-cra-zì-a
Significato Regime
in cui le masse prevalgono facendo valere le proprie istanze, mosse da
passione viscerale, anche cercando di prevaricare la legge
Etimologia dal greco okhlokratía ‘potere della folla’, composto di ókhlos ‘folla’ e -kratía ‘potere’.
Il termine è usato per la prima volta in greco dallo storico greco Polibio, vissuto nel II secolo a.C., negli anni in cui Roma conquistò la Grecia. Nelle sue Storie, fra l'altro, specula sull'anaciclosi, un ciclo di forme di governo che finirebbe per ripetersi in un susseguirsi di degenerazioni e rivoluzioni — la monarchia degenera in tirannide, che è rovesciata dall'aristocrazia, che degenera in oligarchia, che è rovesciata dalla democrazia, che degenera in oclocrazia, su cui si restaura una monarchia. Saremmo quindi davanti a una degenerazione della democrazia.
Beninteso: è una degenerazione della democrazia per come era intesa dai nostri nonni di epoca classica, cioè un governo quasi diretto, in cui il potere è sì nelle mani del popolo, ma di un popolo-minoranza da cui erano escluse le donne, così come gli stranieri e gli schiavi. Quella forma di governo non è la democrazia che intendiamo noi. E già questo rilievo fa scricchiolare un'attualizzazione semplice dell'oclocrazia.
Inoltre, il recupero di questo concetto in italiano avviene nel Rinascimento; e va considerato che da allora fino a pochi decenni fa il concetto di un possibile 'governo del popolo', oclocratico ma anche democratico, era paventato come temibile e degenere. E oggi?
Mentre monarchia e tirannide, aristocrazia e oligarchia, sono termini dai contorni netti, il termine 'oclocrazia' risulta difficile da mettere a fuoco, e specie da distinguere dalla democrazia. Però le parole dotte e ricercate devono riuscire a dire qualcosa di preciso e importante, devono portare dei significati tagliati come gemme, altrimenti sono fumo negli occhi.
L'oclocrazia, allo stato attuale, vuole avere un significato che però è tutt'altro che limpido, per lo scarto con le cornici e contesti in cui è stata generata, presa in prestito e sviluppata. È una parola che, a confronto delle altre che identificano altre organizzazioni della sfera politica, non è maturata. Figlia di un susseguirsi di concezioni elitiste, vuole essere qualcosa di diverso dalla democrazia quando sostanzialmente non lo è.
[ar-raf-fà-re (io ar-ràf-fo)]
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SIGN
Afferrare con violenza; impadronirsi
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dall'ipotetica voce longobarda [hraffōn] 'afferrare'
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Qui si annusa un'origine longobarda anche prima di consultare i
dizionari: tanta è la sua forza, violenta e aspra già nel suono,
eppure così perfettamente adattata alla nostra lingua, che
non ci stupisce sia uno dei prestiti germanici innestati
su quel latino che si stava trasformando in altro, portato da
quei nostri nonni che
superarono l'Isonzo al fianco di re Alboino.
Il verbo longobardo ricostruito 'hraffon' aveva il significato
di afferrare con violenza. Ora, non che l'afferrare latino
fosse più rassicurante, è letteralmente un 'prendere il ferro',
mettere mano alla spada, con quel gesto repentino
che promette poco di buono, ma l'arraffare, con la schietta
brutalità delle parole del suo genere, ha volato lontano dalle
strettezze del gesto.
Infatti l'arraffare è un gesto che comporta già da sé una
dimensione psicologica. Mentre l'afferrare può essere del tutto
neutro, l'arraffare adombra
una certa smania, un'avidità rapinosa, una netta foga: magari potrò
dire in senso positivo
che con balzo felino ho arraffato il cappello che il vento
aveva strappato a qualcuno per restituirglielo con galanteria. Ma
tanto, tanto più probabilmente lo userò avvicinandolo allo scippo,
alla rapina, al furto: parlerò dell'amico che ha arraffato le
tartine col caviale mentre stavano ancora allestendo il buffet, di
come la signora arraffi come bottino prezioso il libro che avevamo
abbandonato di proposito
al tavolo del bar per disfarcene senza buttarlo, della parabola
politica del gruppo che giunto al vertice arraffa quel che può
— e si fa sgamare
subito.
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