Ofelimità
o-fe-li-mi-tà
Significato Secondo il pensiero dell’economista e sociologo Vilfredo Pareto, valore d’uso, soggettivo di un bene, misurato dal personale piacere che un soggetto ne trae o crede di trarne
Etimologia voce coniata da Pareto, dal greco ophéllimos ‘vantaggioso’, da óphelos ‘utilità, vantaggio’.
Cogliere un tratto della realtà, perfino di percezione comune e immediata, può richiedere uno sforzo linguistico titanico. Ancora una volta ci troviamo davanti a una parola che per molte persone potrà essere mai vista prima, e che al primo impatto può sembrare difficile, ma che significa qualcosa di nostro — che si allarga sul crinale fra economia e filosofia.
Questo termine fu coniato da un economista e sociologo non di notorietà proverbiale ma di grandissima importanza nel campo, Vilfredo Pareto, che operò fra Otto e Novecento. Alcuni suoi contributi alla teoria economica cosiddetta ‘neoclassica’ (in ampia parte dominante tutt’oggi) sono ancora insegnati fin dai primi passi degli studi in economia.
Ora,
si sa che in ogni disciplina le parole sono importanti — e in economia è
molto usato il concetto di ‘utilità’ (ne stiamo parlando perché è
proprio a questo concetto che si oppone la nostra ofelimità).
Si trova enunciato che in economia l’utilità è la capacità di un bene o di un servizio di soddisfare un bisogno, una domanda. Pensiamo variamente all’utilità del grano, all’utilità dei bonsai,
all’utilità delle riproduzioni fedeli di parrucche incipriate
settecentesche. Si tratta di una definizione scivolosa, problematica e
sofferta, perché il concetto di utilità si presta ad accezioni differenti (tanto da richiedere una batteria
di specificazioni): posto così può arrivare a paradossi, come includere
ciò che non ha valore economico, includere anche ciò che ha un valore
economico pur essendo dannoso e disutile, e non predica se ciò che
descrive ha una dimensione oggettiva o soggettiva. Riguardo a questo
punto, sappiamo che il valore economico che personalmente attribuiamo a
un bene o un servizio può aver poco a che fare con un’utilità oggettiva
commisurata a un inafferrabile e generale ‘sviluppo’, e magari espressa
sul mercato. Questa dimensione soggettiva è l’ofelimità (e capiamo
perché Pareto cercasse un termine speciale da usare al posto di
‘utilità’).
Qui non rilevano solo (o tanto) le caratteristiche
intrinseche del bene o del servizio. Qui rileva il piacere che si trae
(o che abbiamo la convinzione di trarre) dalla sua fruizione, o perfino
dal semplice possesso. Così, sintetizzando, l’ofelimità è un valore
d’uso, la qualità del soggettivamente utile, di valore, che dà piacere.
L’ofelimità di Guerra e pace di Lev Tolstoj — ottenibile con
una banconota da 10 euro, e avendo un po’ di resto — può essere nulla
per tante persone. Ma è un libro che può essere immensamente ofelimo per
quelle persone che solo all’idea di leggerlo, di poterlo leggere
quando vogliono, o di poter in ogni momento risfogliare qualche pagina
solo col godimento di rincontrare un nome, o di tenerlo in mostra per
mostrarsi acculturate, fremono di piacere.
Così posso parlare dell’ofelimità che hanno per me i taglieri grossolani e il vino del contadino che posso comprare alla sagra; dell’ofelimità solare ed entusiasta di collezionismi bizzarri; dell’ofelimità di grandi maglioni di lana sformati, pesanti e lisi sui gomiti.
Si possono avere comprensibili incertezze, nell’uso di questa parola — che poche persone hanno in punta di lingua, di penna o di dito. Resta una risorsa interessante quando si cerca, con un alto parametro di precisione, un significato che calzi sul valore soggettivo di qualcosa senza perifrasi, senza attributi didascalici (e quando si cerca una parola sensazionale). Soprattutto, resta testimonianza di uno sforzo verso una lingua più esatta, anche se non ha preso gran piede. Complice l’artificiosità del termine: il greco óphelos non dà nessun altro frutto nella nostra lingua, e ofelimo non è né immediatamente trasparente né facilmente memorabile.
Periodo
pe-rì-o-do
Significato Spazio di tempo con situazioni e caratteristiche particolari; in grammatica, unione di proposizioni di senso compiuto; intervallo di tempo in cui avviene un processo biologico
Etimologia voce dotta recuperata dal latino periodus, prestito dal greco períodos ‘circuito, giro’, composto di perí ‘intorno’ e hodós ‘strada’.
La nostra capacità di espressione quotidiana riposa su un arcipelago di cortocircuiti poetici arditissimi di cui non abbiamo consapevolezza, tutti volti ad afferrare e a dire l’inafferrabile e l’indicibile. Sono passati più di cento anni da quando Albert Einstein ha raccontato al mondo i nessi fra spazio e tempo — che in larga parte, come almeno sappiamo, sono molto difficili da immaginare, da rappresentarsi. Però noi, da molti secoli, usiamo una parola come ‘periodo’, all’apparenza normale e dimessa, e senza batter ciglio accettiamo che significhi ‘spazio di tempo’.
Il problema è che davanti al tempo siamo inermi. Concepiamo facilmente il suo passaggio, il suo essere in momenti diversi, ma non ci dà elementi propri per significarlo. Mentre posso perfino fare, mostrare uno spazio con le braccia, per significare il tempo sono legato all’uso di strumenti spaziali — lontano, lungo, passaggio, mimare di buttarmi a mano aperta qualcosa dietro, o col dito una rotella che gira. Lo stesso termine ‘tempo’ deriva da una radice protoindoeuropea che parla di un ‘allungare’, quindi per parte nostra non siamo mai riusciti a liberarci dal destino di significare il tempo con lo spazio: esiste lo spaziotempo.
Il periodo coglie questa finezza universale in una maniera mirabile. È letteralmente il giro intorno, il circuito. Nel suo spazio esiste e si sviluppa una situazione con delle caratteristiche; non giunge tanto a una fine, ma piuttosto traccia un occhiello nel reale, non separato del resto, ma riconoscibile per certi tratti in un ‘a sé’. È periodo il tempo di rivoluzione degli astri, il ciclo regolare secondo cui varia una grandezza, il peculiare torno storico, in grammatica l’unione che si apre e chiude di proposizioni con senso compiuto (e poi anche di frasi musicali), fino all’intervallo in cui si verifica un processo biologico.
Balza in evidenza che il periodo è tempo in quanto giro — e che il tempo giri è nelle nostre corde, dalle lancette degli orologi alle rotazioni celesti, alle curve e agli archi in cui lo immaginiamo. Insomma, se non fosse una suggestione un po’ facilona, si potrebbe dire che il periodo rappresenta in effetti uno spaziotempo curvo, e che c’era gente antica che in boschi di metafore aveva annusato molte cose di là da essere scoperte.
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