Sul
cuore della Terra ogni persona sa che le tisane fanno bene alla salute,
anzi che siano composte proprio per avere effetti benefici sul fisico:
perciò va da sé che siano così chiamate perché la tisana ‘ti sana’. E
invece no.
Questo è un esempio di etimologia popolare, che inizia ad echeggiare fra chi crede che la
storia
delle parole resti sempre visibile sulla loro superficie come olio
nell’acqua. La realtà sull’origine del nome della tisana è diversa — e
ci farà fare i conti con una nozione davvero mobile.
Il greco ptisáne
(qui l’accentazione italiana segue quella greca, non la latina) è derivato dal verbo ptíssein,
che significa ‘tritare, pestare’. Il nucleo originario di significato
della tisana che ci porta questo verbo non sta tanto in un effetto sul
corpo o in una tipologia di
ingredienti,
ma nel modo in cui tali ingredienti sono pestati e ridotti in
poltiglia. Un’origine tutt’altro che accessibile a una prima occhiata,
anche perché il verbo ptíssein
non ha altri
esiti
nella nostra lingua, quindi è un volto ignoto.
Il
punto interessante è che però la tisana, da millenni e fin quasi ai
giorni nostri, ha avuto un ingrediente quasi invariabile che adesso ci
perplime: l’orzo. La tisana era specificamente il decotto d’orzo — una
sbobba
versatilissima, da usare da sé come bevanda medicamentosa o come
impiastro
emolliente, o anche come eccipiente d’altri principi attivi, la cui invenzione si fa miticamente risalire allo stesso Ippocrate…
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SIGN
Parte della filosofia che studia
l’essere in quanto essere, indipendentemente dalle sue manifestazioni
particolari
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dal latino moderno [ontologia], composto del greco [ón] ‘ente, che è’, e [-logia] ‘studio’
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Che parolone, ontologia:
uno di quei termini filosofici che intimoriscono a prima vista. Eppure,
in teoria avrebbe un significato semplice: discorso, trattazione,
studio (dal greco lógos) sull’essere, su ciò che è
(in greco ón, óntos
è il participio presente di eimí, ‘io sono’). Già, ma cosa sarebbe mai questa strana forma verbale sostantivata, l’essere? Nel linguaggio quotidiano, di solito la usiamo per indicare enti determinati, numerabili (in fondo al mare vivono strani esseri; sei
un essere speciale). Ma nell’ontologia non si tratta degli
esseri, bensì dell‘essere; non delle cose fatte così o così, con
le loro varie e mutevoli determinazioni, ma delle cose in quanto,
semplicemente, sono — dell’essere in quanto essere.
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SIGN
Genere di mammiferi carnivori cui
appartengono il leone, la tigre, il leopardo, il giaguaro e il leopardo
delle nevi. Nel linguaggio comune ‘pantera’ indica solitamente, per
antonomasia, la ‘pantera nera’, termine che non definisce una specie in
particolare ma include potenzialmente tutti gli esemplari melanici del
genere panthera, anche se nell’immaginario tende a coincidere con il
leopardo nero
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dal latino
[panthera], a sua volta derivato dal greco [panther], presumibilmente
ricollegabile al sanscrito [puṇḍarīka], ‘tigre’.
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Periodicamente i giornali segnalano che da qualche
parte
è stata avvistata una pantera. A volte si tratta di un altro
animale, sì, ma di solito è una pantera,
forse
anche perché è più facile confonderla con un grosso cane o gatto.
Comunque
la cosa è curiosa: pare quasi che una parte di noi si aspetti
di
incontrare
una pantera prima o dopo.
Anche la letteratura porta le tracce di questo animale
evanescente, che si fa presentire ovunque senza lasciarsi catturare. In particolare Dante, nel De vulgari eloquentia, lo prende a
emblema
dell’italiano “perfetto”, che spande il suo profumo per le parlate regionali ma non si identifica con nessuna.
Il
paragone
si fonda su una curiosa idea, già aristotelica: la pantera avrebbe il
potere d’irretire con il suo profumo tutti gli animali, per poi
divorarli con comodità. In effetti, a detta di Isidoro da Siviglia, il
suo nome alluderebbe proprio a questo
fascino
universale (‘pan’ in greco
significa
‘tutto’).
L’idea ha spopolato nella letteratura medievale, tanto che alcuni ne hanno tratto
spunto
per
allegorie
cristologiche, altri per
lodare
il profumato
respiro
della propria donna. Dante ha portato questo topos
in una nuova direzione; ed è sul suo esempio che, secoli dopo, Giorgio
Caproni ha concretizzato in una bestia sfuggente (definita in
un’occasione ‘pantera’) concetti onnipresenti e inafferrabili insieme:
la poesia, l’identità personale, il male, Dio.
Anche la
simpatica
pantera rosa viene in fondo da qui. Nasce infatti nei titoli di testa del
film
omonimo (1963) come personificazione di un diamante di
grande
valore, che scivola tra le dita di tutti i protagonisti. I titoli ebbero un successo tale da dare vita a un
personaggio
autonomo, indefinibile e irreale come la pantera dantesca, e dotato di una sofisticheria un po’ snob.
Peraltro la pantera sfugge anche alle maglie della classificazione linguistica. Nell’uso odierno questa
parola
designa per
antonomasia
la pantera nera che però, scientificamente parlando, non esiste. Esistono diverse specie appartenenti al genere panthera, di cui la più nota è il leopardo, e alcuni
esemplari
di queste specie nascono a volte con il pelo più scuro della norma (hanno ancora le macchie, ma essendo ton sur ton
non si notano).
Insomma,
se la società felina avesse leggi antirazziste, parlare della pantera
nera come di una specie a sé porterebbe di certo a multe salate. E in
effetti la
storia
della pantera si è intrecciata davvero a quella delle lotte contro il
razzismo: il Black Panther Party era la celebre organizzazione che
combatté – con metodi controversi – per i diritti degli afroamericani; e
agli stessi anni risale la creazione di Black Panther, conosciuto come
il primo supereroe nero… |
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