Calamità
[ca-la-mi-tà]SIGN Disgrazia, sciagura di grande portata
dal latino [calamitas] 'disgrazia, rovina', di origine non latina.
Questa parola viene usata perlopiù in espressioni come 'calamità naturale',
o 'stato di calamità': espressioni che troviamo sui quotidiani, tanto
ripetute da far perdere la vivida, esatta dimensione di questa parola.
Siamo davanti a una parola grossa, grave: descrive non una semplice disgrazia o sciagura, che può avere anche una dimensione intima, e nemmeno una catastrofe vasta di sapore apocalittico. La calamità è un evento funesto
e preciso che colpisce un gran numero
di persone, un'intera comunità. Si parla di come la siccità sia una
calamità che gli agricoltori devono fronteggiare sempre più spesso;
davanti alla pubblica calamità di un'epidemia si discutono le
contromisure d'igiene pubblica; e si nota come l'allignare di certe idee possa essere una vera calamità.
Però spesso accade che le parole più cupe abbiano degli esiti ironici, e anche questo è il caso: la disgrazia collettiva si fa iperbolica
e scherzosa. Il cucciolo indomabile è una calamità per il mobilio, il
successo del programma televisivo è una calamità culturale, e lo zio
paga una fortuna d'assicurazione perché al volante è una calamità.
Una parola intensa, che chiede d'essere usata con estro.
(Ah, ma c'entra qualcosa con la 'calamita', il magnete? La risposta è no: purtroppo, però, l'incertezza delle ricostruzioni etimologiche non permette confronti simpatici.)
Socialite
[socialàit]SIGN Persona che deve la sua notorietà alla frequentazione dell'alta società e alla partecipazione assidua a eventi mondani
voce inglese, derivato di [social].
Questo termine è uno dei tanti
prodotti della capacità di innovazione linguistica della stampa e dei
media in generale, che si esprime spesso attraverso giochi di parole e
formazione di derivati. Usando come elementi di base una parola molto
antica come social ed un suffisso di derivazione latina che
indica relazione o appartenenza (corrispondente al nostro -ita, dal
latino -ita a sua volta dal greco -itis), agli inizi del secolo scorso i
giornali inglesi hanno creato questo neologismo. Il richiamo diretto è
quello alla mondanità, al regno dell’alta società dove è tutto un
susseguirsi di eventi e di apparenze scintillanti. E difatti è anche
probabile, e qui subentra la tipica creatività del settore, che si sia partiti dal sintagma social light e, per assonanza, si sia utilizzato il suffisso di cui abbiamo detto.
Socialite è quindi chi ottiene una
certa fama grazie alla sua presenza assidua in occasione di feste ed
incontri organizzati nel gran mondo: la proprietaria dell’atelier cerca
in tutti i modi di accontentare
la socialite esigente, giovani in cerca di celebrità tentano di entrare
nell'orbita della socialite più in vista, e l’attrice che rischia di
cadere in disgrazia continua a comparire tra le pagine dei rotocalchi
soltanto per le sue doti di socialite.
In italiano la parola è stata
introdotta molto recentemente: diversi dizionari non l’hanno ancora
inserita tra i propri lemmi, e l’uso è quasi esclusivamente limitato
alla stampa, dove viene spesso sfruttata per evocare frivolezza, eccessivo sfoggio di lusso
e
notorietà in qualche modo immeritata perché non legata ad alcun valore o
capacità personali concreti. Difficile trovare un vero e proprio sinonimo; più semplice sarebbe, probabilmente, ricalcare il termine con socialita, forse però troppo simile al già presente socialità per potersi imporre senza creare confusione.
Abolire
[a-bo-lì-re (io a-bo-lì-sco)]SIGN Cancellare una norma, una consuetudine, un'istituzione; eliminare distruggere, ridurre a niente
dal latino [abolere] 'cancellare, distruggere', forma più tarda di [abolescere] 'perire, spengersi', di etimo incerto.
In questa parola, che specie in questi tempi di campagna elettorale ci echeggia nell'orecchio, possiamo osservare un fenomeno ricorrente, che ne coinvolge i significati. Quando, in una medesima parola, un uso diventa smaccatamente preponderante sugli altri, talvolta
contribuisce a farci sembrare questi ultimi sempre più strani: li usiamo meno, e la parola si impoverisce.
Abolire. In questo verbo
tendenzialmente, con un atto di volontà forte, con un atto d'autorità,
si cancella qualcosa (norme, pratiche) che è stato istituito o che
esiste per consuetudine. La matrice
è giuridica. Si promette di abolire una legge impopolare, si festeggia
la ricorrenza di quando fu abolita la pena di morte, si abolisce l'ente
inutile; così come, con una sfumatura che accarezza il rinunciare, il
medico ci impone di abolire il consumo di alcolici, e ci ripromettiamo
di abolire certe parole sconvenienti dal nostro vocabolario - almeno in
pubblico.
Ma prima di questi significati
specifici, che ci sono consueti, l'abolire ha un significato più
generale, ossia quello di ridurre a niente, di spengere, di distruggere.
Ad esempio cambiando casa aboliamo un ricordo doloroso, la prova lampante abolisce ogni dubbio, la giusta compagnia
abolisce il senso normale del passare del tempo, e alla fine della
giornata sfiancante mi abolisco nella lettura. In questi sensi
all'abolire manca quel tratto di diretta volontà con cui lo conosciamo
solitamente, e si emancipa dal solito riferimento a regole, pratiche e istituzioni. Riprende il suo massimo respiro: torna un vasto annichilire, e ritrova quel genere di cui l'abolire che leggiamo sui giornali è solo una specie.
E poi usare una parola in maniera insolita colpisce sempre.
No comments:
Post a Comment