Faloppa
[fa-lòp-pa]SIGN Bozzolo di baco da seta che contiene una crisalide morta; millantatore, persona vana, bugiarda
dal latino medievale [faluppa] 'paglia, lolla di grano, immondizia', di origine incerta.
La storia di questa parola è antica,
anche se prima della sua attestazione nel latino medievale (parliamo
del Duecento, in Emilia) non si sa molto di certo. Comunque, dalle forme
'faluppa' o 'falopla' diventa l'italiano 'faloppa' nel XIV secolo. Ora,
i primi significati latini erano eterogenei ma descrivevano tutti
materiali di nessun valore: paglia, lolla (ossia l'involucro dei
cereali, e il sinonimo 'loppa' viene proprio da qui), fino
all'immondizia tout-court.
Nel passaggio alla nostra faloppa,
però, pur mantenendo il senso essenziale l'immagine cambia, diventando
molto specifica: il bozzolo del baco da seta che contiene una crisalide
morta (morta di morte naturale, potremmo dire, perché la bella seta, per
essere impiegata, richiede sempre l'uccisione delle crisalidi nel loro
bozzolo finito). Questi bozzoli restano però incompiuti, flosci,
inconsistenti, e macchiati internamente dalla putrefazione, dalla tabe - e insomma, servono a poco. Magari
da fuori paiono sani, a posto come tutti gli altri; ma al tocco o
al momento di scioglierli rivelano il loro triste difetto. Perciò l'uso metaforico della faloppa riferito a una persona non è incardinato
sulla sua assenza di valore, ma sulla sua vanità, sul suo essere -
figuratamente - bugiarda, menzognera, millantatrice. Uno slittamento
interessante.
Possiamo parlare del faloppa che noleggia
la Maserati per far le viste di avere grandi denari (si può usare anche
al maschile, invariato); ci dileguiamo rapidi dalla festa formale
affollata di faloppe; e quando si riesce a smascherare una faloppa è
sempre un bel godere.
È una parola ricercata, che però (mi dicono) ancora ruggisce nel nord-est. Ed è una risorsa straordinaria: un termine che ci significa con un suono gonfio una vanità che par persona, avvilita da una morte interiore, da un'intima putrescenza. Niente male.
* * *
Tautogramma
[tau-to-gràm-ma]SIGN Frase o componimento composto di parole comincianti tutte con la stessa lettera
dal greco [tautó], crasi di [tò autó] ‘lo stesso’, e [grámma] ‘lettera’, perciò ‘lettera identica’.
La definizione da manuale, quella
della Treccani, è quella di sopra: «frase o componimento composto di
parole comincianti tutte con la stessa lettera». Certo, chiara;
tuttavia, molto più interessante e, soprattutto, esemplificativa, è
quella che dà Walter Lazzarin, giovane padovano autore di, in mezzo a
tutto il resto, Ventuno vicende vagamente vergognose: «composizione costruita con componenti che cominciano, categoricamente, con caratteri coincidenti».
Sì, è proprio un tautogramma che si racconta.
Un’allitterazione esasperata, insomma. Starete pensando: «mica è roba da tutti i giorni!», e io vi rispondo: mica
avete torto! Se chiedete le indicazioni a qualcuno, difficilmente vi
risponderà con un tautogramma (ve lo immaginate? «Va’, veloce, verso via
Venti»),
a meno che non siate in una fiaba e il vostro interlocutore sia un
folletto cantilenante. Perché, allora, il tautogramma? Facile: perché a
volte ci si vuole divertire, e il tautogramma è proprio un gioco.
Diffuso nel Medioevo, questo passatempo è stato l’esercizietto prediletto da tanti autori (il più conosciuto, forse, è la Pugna Porcorum,
«Battaglia dei porci», composto di parole inizianti tutte, ma proprio
tutte, con la lettera «P». Il Monaco domenicano Johannes Leo Placentius
(vero nome del tautogrammatico P. Porcius) aprì così, nel 1530, il
testo: Plaudite, porcelli, porcorum pigra propago!, «Gioite,
porcelli: tramando dei porci le gesta indolenti». I più coraggiosi
vadano a leggere tutti i 250 versi – ne vale la pena; i meno audaci,
invece, possono dedicarsi a tautogrammi in italiano, come quello di
Luigi Groto, poeta e drammaturgo italiano del XVI
secolo, dedicato a una certa Deidamia – ed essendo Deidamia il nome, non
poteva che essere un tautogramma con la «D»: «Donna da Dio discesa, don
divino, / Deidamia, donde duol dolce deriva, / Debboti donna dir, debbo dir diva, / Dotta, discreta, degna di domino?» Le altre tre strofe son facilmente reperibili in rete, e altrettanto facilmente godibili.
Più vicino a noi temporalmente,
anche Umberto Eco ha scritto un tautogramma abbastanza conosciuto che
inizia così: «Povero papà (Peppe), palesemente provato penuria, prende prestito polveroso pezzo pino poi, perfettamente preparatolo, pressatolo, pialla pialla, progetta, prefabbricane pagliaccetto». Il titolo è Povero Pinocchio, e come è chiaro racconta la storia del «pagliaccetto» usando solo parole inizianti per «P». Un capolavoro.
Lo so, lo so, questo gioiellino,
giocosa gemma, giada gioiosa della letteratura, è decisamente poco
adatto alle chiacchiere da bar e ai discorsetti sull’autobus. Non
dimentichiamoci, però, che anche noi, chiacchieratori al bar e
discorseggiatori sull’autobus, pur non essendo autori medievali che si
dedicano a esercizi di stile, possiamo comunque giocare con le parole e
darci ai tautogrammi – o meglio, a «composizioni costruite con
componenti che cominciano, categoricamente, con caratteri coincidenti».
* * *
Dilucolo
[di-lù-co-lo]SIGN Alba, prima luce del mattino; all'alba
voce dotta recuperata dal latino [diluculum], da [dilucère] 'essere luminoso, essere chiaro'.
Vengono inventate
un mucchio di parole nuove per descrivere un mucchio di cose e concetti
straordinari, ma di nuove parole per descrivere l'alba no. Ci sono solo
le solite. Però cercando bene si possono riscoprire delle parole desuete - ed è un po' come averne di nuove.
Tutto nel suono di questa parola (che si trova anche nella variante 'diluculo') ci richiama qualcosa di piccino: e anche se nel diluculum latino non troviamo propriamente un diminutivo, esso significa i crepuscoli di alba e tramonto, luoghi in cui il dilucere, proprio perché minuto, proprio perché non si afferma senza rivali nel giorno ma si confronta con l'oscurità, acquista un'evidenza stagliata. In italiano si è però riferito solo al crepuscolo del
mattino. I pensieri non sono mai così chiari come quando si esce di casa al dilucolo (o si esce di casa dilucolo, è anche avverbio); nel dilucolo chi ha fatto la notte a ballare torna a casa coi pescatori; e ripercorrendo i nostri
ricordi riconosciamo il dilucolo di un sentimento.
Poi certo, se si vuole essere sicuri
d'essere intesi e si vuole avere la parvenza di uno slancio di
ricercatezza (per cui escludiamo l'opzione piana e netta di 'alba') si
può parlare di albore. Ma è una parola la cui poesia è l'ultima fetta di torta rimasta sbriciolata nel vassoio - troppi albori intesi come inizi, perfino quel meraviglioso sospeso '-ore' finisce che sa di poco. E l'aurora ha un che di
affettato, epico. Il dilucolo, invece, sa di modesto, di piccolo, di importante.
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