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È
una parola che si mastica di frequente, ma i suoi significati correnti
sono sottili e piuttosto limitati, e inoltre veste degli evidenti panni
latini che hanno un certo peso sulle sue sfumature.
Si potrebbe dire che l'incognito è
lo sconosciuto, ma sarebbe un'affermazione da circostanziare: non si
sente tanto parlare delle cause incognite che hanno determinato
un gesto, delle vie incognite che ci affascinano nella nuova città - è
un uso letterario o rétro. Difficilmente dirò anche che mi imbuco
incognito alla festa: facilmente userò questa parola come sostantivo,
dicendo che ci vado in incognito.
Già perché l'incognito che
frequentiamo quotidianamente non è la qualità dello sconosciuto, ma la
condizione, il fatto di tener nascosta la propria identità. Conserviamo
con attenzione l'incognito quando vogliamo cogliere delle informazioni
delicate, la persona
sempre in vista si gode un bel viaggio nel più stretto incognito,
nell'incognito veneziano fioriscono feste carnevalesche e trame intriganti.
Nel fatto che l'incognito sia la condizione di chi si travisa,
di chi cela la propria identità, si trovano due cifre interessanti: la
prima (simpatica anche se poco solida) è la concretizzazione esemplare
di una differenza classica
con l'ignoto - per cui si recita che mentre l'incognito sarebbe
sconosciuto ad alcuni, l'ignoto è sconosciuto a tutti. Non è una verità
scolpita nel marmo, ma è ovvio che almeno chi porta l'incognito,
nell'occultarla, conosca la
propria identità.
A questo si aggiunge la seconda,
molto più solida: l'opzione dotta per questo latinismo dà immediatamente
una dimensione studiata all'incognito. Difficilmente ci si ritrova in incognito, c'è un passaggio intellettuale, un piano ordinato - anche perché celare la propria identità non è sforzo banalissimo, ed è volentieri volto a fini coperti, magari loschi. E questa trama preparata è
adombrata
dalla ricercatezza del termine, così aderente all'originale latino -
che continua a garantirci una vena di potere che sembra inesauribile.
13 Aprile 2019 |
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