Populismi e Postmodernità
DI ROSANNA SPADINI
La postmodernità non è un esercizio
filosofico, è la prassi che la nuova classe finanziaria dominante ha messo in
atto per appropriarsi di ulteriori ricchezze attraverso un insieme di strategie
comunicative e tramite la colonizzazione dell’inconscio.
Nel contesto politico attuale, nel tempo
malsano e degradato dell’egemonia dei
banksters, la democrazia appare sempre più agonizzante e i Parlamenti degli
Stati europei si sono svuotati di potere politico rappresentativo.
I partiti tradizionali non avendo veri
programmi si sono trasformati solo e unicamente
in dispositivi elettorali per
vincere le elezioni, e il liberismo ha sostituito le classi sociali con le
categorie borghesi e popolari a-politiche e decontestualizzate: le “donne”, i
“giovani”, gli “immigrati”, i “gay”, e via discorrendo.
Ai diritti sociali, tutela del benessere
moderno, welfare e lavoro, si sono sostituiti i diritti civili ed estetici:
unioni civili, ius soli, maternità surrogata. Sparite dunque le classi (e le
lotte di classe) oggi ci si concentra sull’individuo.
Del resto “La società non esiste, esistono gli
individui”, chiosava M. Thatcher, punta di diamante del neoliberismo delle
origini, capace di coniugare saldamente dumping salariale e riduzione del
welfare a condizioni individuali, formalmente libere dalle imposizioni morali
ma anche sociali tipiche delle ideologie.
Schiavitù economica contrabbandata come
libertà per i singoli, ma fino a un certo punto, perché si mina alla base il
concetto di uguaglianza (perché dovremmo essere uguali? L’individuo non deve
essere uguale a nessun altro) per favorire l’individualismo thatcheriano.
Negli ultimi 10 anni si sono diffuse in Europa
vari tipi di forze politiche, che sono state definite dal potere “populismi”:
Indignados, Sovranisti, Podemos, M5S.
Ma secondo l’ordine simbolico e linguistico
imposto dal potere, con il solo obiettivo di rinsaldare il proprio dominio sui
dominati, è necessario controllare la popolazione, e mantenere la massa schiavizzata
in una condizione di subalternità, in modo tale che la neolingua possa
diventare veicolo di potenziamento dei valori del neoliberismo.
Dal 1989 il capitale ha adottato una nuova
neolingua, e chiunque metta in discussione il potere oligarchico, viene
demonizzato come disfattista, complottista, o populista. La categoria di
populista serve esattamente a diffamare ogni prospettiva che assuma la parte
del Servo e non del Signore (Fenomenologia dello spirito, W. Friedrich Hegel).
Oggi viene diffamato chiunque prenda la difesa
dei lavoratori precarizzati e schiavizzati, perché ciò contraddice il potere,
che vuol contrabbandare i propri dogmi ideologici come fossero interessi
universali: concorrenza, competitività, globalizzazione, delocalizzazione, cancellazione
art.18, licenziabilità senza giusta causa, flessibilità.
Chiunque abbia il coraggio di svelare il vero
significato oscurato della neolingua, viene silenziato come populista, e
complottista, incapace di accettare la mera ricostruzione dei fatti e degli
eventi prospettata dalla mediatizzazione della realtà, che il potere ci mostra
quotidianamente sugli schermi televisivi.
Il termine “populismo” o “antipolitica“, viene
quindi usato dal potere con toni spregiativi e diffamatori, è diventato una specie
di parolaccia, e i media ci presentano
una realtà confusa e distorta, Grillo come Trump, Raggi come Trump, Obama, l’imperatore buono, premio
Nobel per la pace, in realtà ha sostenuto 7 guerre in contemporanea.
(Afghanistan, Libia, Somalia, Pakistan, Yemen, Iraq e Siria)
Modernità e Postmodernità. Termini che
indicano lo spirito di una civiltà, nel suo divenire storico, antropologico e
culturale. La distinzione va ricercata secondo un’analisi marxista, l’aforisma
di Marx, per cui “la cultura dominante coincide perfettamente con la cultura
della classe dominante”. (Karl Marx, Ideologia tedesca)
Le realtà virtuali, l’iperrealtà, sono la
matrice della Postmodernità, strettamente correlate all’uso di macchine
creatrici di virtualità: Pc, Tablet, iPhone … Se la “produzione” è la cifra
della Modernità, la “simulazione” è quella della Postmodernità.
La Postmodernità, ridimensiona la produzione
per favorire la simulazione, sposta
ingenti masse di salariati dalle fabbriche al terziario o oltre, azzera quella
middle class che era il volano dell’economia dei consumi, chiude impianti
produttivi. La disoccupazione di massa è la vera piaga della postmodernità:
felicità virtuale e disperazione reale.
L‘Illuminismo aveva concentrato l’attenzione
sull’impatto politico della nuova mentalità scientifica, che inneggiava all’
“Homo faber fortunae suae”, e aveva indotto i nuovi uomini a sostenere le prime
grandi rivoluzioni della storia, Rivoluzione americana 1776, Rivoluzione
francese 1789.
Il background filosofico culturale entro cui
nasce il populismo è dunque l’età postmoderna, che propone una narrazione
sempre più inquieta e socialmente devastante, dove le solide narrazioni della
modernità si sono frantumate contro il nonsense di un sistema sociale
globalizzato, sfilatosi verso una remota periferia a-ideologica.
Diversi autori hanno percepito in
anticipo l’avvento del postmoderno, e lo
hanno interpretato attraverso la loro acuta sensibilità, a partire dagli anni
’70: Jean Francois Lyotard, Guy Debord, Jean Baudrillard, Marc Augé, Zygmunt
Bauman.
Al popolo postmoderno non interessa la
“verità” dei fatti né il senso degli eventi, perché vuole ascoltare solo le
narrazioni, favole illusionistiche, simulacri evanescenti, emersi direttamente
dal nuovo oscuro inconscio collettivo, e dalla società dello spettacolo.
Le nuove minacce metropolitane sono: migranti e clandestini che invadono il paese,
offrendo manodopera a basso costo, ingrossando le file della microcriminalità e
minando così la serenità sociale; grottesche crociate contro l’Islam; politiche
di austerity che massacrano l’economia dell’Italia, divenuta il sud Europa.
La “notizia” della postmodernità è una fake
news, consiste nella negazione stessa dell’informazione, perché non mira a
informare sulla “verità” dei fatti, ma li reinterpreta deformandoli, proprio
per oscurarli completamente. (Marco Travaglio, La scomparsa dei fatti)
Jean-François Lyotard, nel suo testo “La
condizione postmoderna” (1979), conia il nuovo termine di «postmoderno» per
definire l’epoca attuale. Il termine designa uno sviluppo tecnologico e
scientifico che ha delle ricadute immediate sulla vita quotidiana e sulla
politica.
Lo sviluppo tecnologico diventa sempre più
invasivo per il benessere neurovegetativo umano (Psyche e Techne, Umberto
Galimberti). La pornografia dei media
produce la molteplicità dei linguaggi, la contaminazione degli stili, un
citazionismo ossessivo (film di Quentin Tarantino), tipico di un’epoca che non
ha più nulla da dire, se non ripetere all’infinito, in modalità sempre diverse,
le stesse tematiche.
Ne è derivata la perdita di centralizzazione
nell’organizzazione dello Stato (federalismo), la perdita di sovranità, (euro,
UE), un aumento dei “processi di disgregazione dello Stato Nazione“.
L’Occidente sta vivendo una stagione sconcertante, attraversata dalle
rapidissime trasformazioni scientifico-tecnologiche.
Con grande lucidità, Lyotard propone una
partizione storiografica tra l’epoca moderna (secoli XVII e XX) e l’epoca
post-moderna, che si è affermata compiutamente nel tardo Novecento. I moderni e
i postmoderni professano una visione dell’uomo, della società e in genere della
realtà, antitetiche nei loro aspetti più essenziali. L’idea forte dei moderni è
il progresso umano, essi concepiscono la storia come un processo di
emancipazione progressiva nella quale l’uomo realizza e arricchisce le proprie
facoltà.
L’idea forte della modernità è il progresso,
inteso come orientamento a un modello di vita e di azione, come aspirazione a
valori ultimi, fondati sulla capacità dell’uomo di esercitare la ragione. Ciò
che definisce l’essenza della condizione post-moderna, invece, è proprio la
negazione della capacità umana di produrre il progresso, una sorta di
nichilismo dei valori.
Ne segue la negazione della scuola e dell’università
come agenti di socializzazione e orientamento di valori. La perdita di potere e
di funzione sociale dell’intellettuale, che a partire dall’età dei Lumi era
stato la coscienza della modernità. Tutto molto strano per quella che viene
definita la «società della conoscenza».
Guy Debord, di formazione hegeliana e
marxista, è stato uno dei critici più importanti delle società occidentali
avanzate. L’incipit della Società dello Spettacolo (1967) riprende a un secolo
di distanza quello del Capitale (1867) di Marx: «Tutta la vita delle società
moderne in cui predominano le condizioni attuali di produzione si presenta come
un’immensa accumulazione di merci». (Il Capitale)
L’incipit dell’opera di Debord è: «Tutta la
vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione
si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli» (La Società dello
Spettacolo).
Secondo Debord, La caratteristica principale
del capitalismo moderno consiste nell’accumulazione del capitale,
nell’espansione delle tecnologie della comunicazione, e nel «feticismo delle
merci». Quest’aspetto dello spettacolo è sicuramente «la sua manifestazione
sociale più opprimente».
«Lo spettacolo non è un insieme di immagini ma
un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini».
Tuttavia lo spettacolo è necessariamente falso
ed ingannevole, giacché struttura le immagini secondo gli interessi di una
parte della società. «Per il fatto stesso che lo spettacolo è separato, è il
luogo dell’inganno dello sguardo e il centro della falsa coscienza». Lo
spettacolo è così il prodotto della mercificazione della vita moderna, il
progresso del capitalismo consumistico verso il feticismo e la reificazione.
E poi, giacché la comunicazione dei media è
unilaterale, il Potere giustifica se stesso attraverso un incessante discorso
elogiativo del capitalismo e delle merci da esso prodotte. «Lo spettacolo è il
discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo
elogiativo. È l’autoritratto del potere».
Lo spettacolo del capitalismo presuppone
quindi l’assenza di dialogo, poiché è solo il potere a parlare. «Il sistema
economico fondato sull’isolamento è una produzione circolare di isolamento».
Ridotto al silenzio, al consumatore non resta altro che ammirare le immagini
che altri hanno scelto per lui. L’altra faccia dello spettacolo è l’assoluta
passività del consumatore, il quale ha esclusivamente il ruolo, e
l’atteggiamento, del pubblico, ossia di chi sta a guardare, e non interviene.
In questo modo lo spettatore è completamente
dominato dal flusso delle immagini, che si è ormai sostituito alla realtà,
creando un mondo virtuale nel quale la distinzione tra vero e falso ha perso
ogni significato. È vero ciò che lo spettacolo ha interesse a mostrare. Tutto
ciò che non rientra nel flusso delle immagini selezionato dal potere, è falso,
o non esiste.
Come l’immagine si sostituisce alla realtà, la
visione dello spettacolo si sostituisce alla vita. I consumatori piuttosto che
fare esperienze dirette, si accontentano di osservare nello spettacolo tutto
ciò che a loro manca. Per questo lo spettacolo è il contrario della vita.
Debord descrive in questi termini l’alienazione del consumatore: «Più egli
contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del
bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio».
In una società mercificata, sostiene Debord, è
la merce ad avere un ruolo centrale. Ogni merce promette il soddisfacimento dei
bisogni, e quando arriva l’inevitabile delusione, dovuta al fatto che tali
bisogni sono fittizi e manipolati, subentra una nuova merce pronta a mantenere
la promessa disillusa dall’altra. Si crea così una concorrenza tra le merci,
rispetto alla quale il consumatore frustrato è un mero spettatore.
Questo modello impregna di sé, ormai, tutta la
vita sociale, divenendo il prototipo di ogni competizione, compresa quella
politica. Questa si riduce alla competizione tra leader che vendono la propria
immagine come una merce, e fanno promesse che non manterranno mai. Il tutto
nell’assoluta passività e apatia dei “cittadini”.
Alle regionali siciliane Vittorio Sgarbi si
presenta con un movimento «Rinascimento siciliano», insieme a Morgan e Giulio
Tremonti, proponendo un trinomio decisamente piuttosto bizzarro, composto da
vecchi arnesi della politica spettacolo, camuffati da nuova proposta
rinascimentale.
La società è completamente dominata da
immagini falsificate che sostituiscono la realtà, facendo scomparire qualsiasi
verità al di là della falsificazione continua. Ciò determina una disincantata
rilettura della storia, definitivamente sottratta a ogni finalismo e quindi
anche della democrazia.
La finzione di democrazia è mantenuta in vita
solo attraverso la costruzione di un nemico comune, il quale consente una falsa
unità che ricopre la realtà della separazione gerarchica tra dirigenti ed
esecutori. È questo il ruolo del terrorismo. «Questa democrazia così perfetta
fabbrica da sé il suo inconciliabile nemico, il terrorismo. Vuole infatti
essere giudicata in base ai suoi nemici piuttosto che in base ai suoi
risultati».
La mondializzazione dell’economia è l’apogeo
di questo processo che si distingue da ciò che l’ha preceduta per un solo
elemento, ma d’importanza decisiva. «Il fatto nuovo è che l’economia abbia
cominciato a fare apertamente guerra agli umani; non più soltanto alle
possibilità della loro vita, ma anche a quelle della loro sopravvivenza». Si
può quindi affermare che «l’economia onnipotente è diventata folle, e i tempi
spettacolari non sono altro che questo».
Nella comunità la comunicazione prende la
forma del dialogo e della discussione ai quali ciascuno può partecipare,
condizione necessaria per prendere decisioni in comune. Questa comunicazione
diretta è l’opposto di quella unilaterale dello spettacolo, nel quale una parte
separatasi dalla totalità pretende di essere l’unica a parlare impartendo
ordini che il resto della società deve limitarsi ad eseguire.
Per essere rivoluzionario, dunque, il
proletariato dovrebbe riprendere coscienza del tempo storico, ossia del fatto
che l’economia è il vero motore della storia. A questa presa di coscienza si
oppone lo spettacolo che cerca di perpetuarsi diffondendo la finzione di un
eterno presente che pretende di aver posto fine alla storia.
Jean Baudrillard poi, altro acuto osservatore del postmoderno,
ha illustrato la frammentazione dell’identità e l’immagine frammentata del
mondo e dell’uomo, confezionata dai mass media contemporanei, i quali
trasformano il mondo in una serie di pseudo-eventi di natura spettacolare.
Per lo spettatore dei media tutto si riduce ad
apprezzare l’intensità e le sensazioni della superficie delle immagini, senza
poter attivare in modo consistente meccanismi di identificazione e di
proiezione nei confronti di personaggi e caratteri.
Baudrillard inizia con la critica polemica
verso il capitalismo. Smantellate le grandi teorie che guardavano alla realtà
come un sistema complesso ma ordinato e descrivibile (Idealismo o Positivismo),
il presente diventa ora un insieme di segni. Oggi predomina una iperrealtà
virtuale, fatta di segni e simulacri. (Simulacri e simulazioni, 1981)
Ad
essere messo in discussione è il concetto di realtà, non di verità, come spesso
era accaduto in passato. Lo sguardo di Baudrillard che si proietta sul quotidiano
è pessimistico, per non dire tragico e drammatico. La cultura produce qualcosa
senza significato, e la sola branca del reale che è in grado di tenere in mano
le sorti dell’uomo è l’industria, la società dei consumi.
I nuovi media hanno giocato un ruolo cruciale
nella fabbricazione del significato o finto valore della realtà. Nel suo libro
“Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?”1996, Baudrillard ha
spiegato come la televisione abbia sostituito la realtà. Tutto ciò che vediamo
attraverso lo schermo è una comunicazione artificiale, un reale contraffatto,
che diventa la vera realtà.
Consideriamo Disneyland, Las Vegas, dove tutto
è incastrato in un meccanismo di funzionamento invidiabilmente impeccabile, un
mondo finto che però funziona alla perfezione.
Ci rechiamo volontariamente in tali luoghi perché attratti dalla
spettacolarità magnetica della ri-creazione, della meraviglia, del simulacro.
Siamo assorbiti dalla manipolazione dei media,
dei programmi informatici e delle psicologie commerciali. Qual è l’originale
realtà per noi? Viviamo di segni e simulacri realtà virtuali o siamo in grado
di coglierne la differenza con
criticità?
Viviamo nei non-luoghi, definiti così da Marc
Augé nel libro” Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità“.
Gli spazi privi di identità, relazioni e storia: autostrade, svincoli e aeroporti, mezzi di trasporto,
grandi centri commerciali, outlet, campi profughi, sale d’aspetto, ascensori …
ecc ecc. Spazi in cui milioni di individui si incrociano senza entrare in
relazione, senza entrare in contatto, senza discutere, parlare, guardarsi,
dialogare … l’esatto contrario dell’agorà di Atene, culla della democrazia.
Sospinti solo dal desiderio frenetico di consumare o di accelerare viaggi e percorsi.
I nonluoghi sono prodotti della società della
postmodernità, dove i luoghi della memoria sono
confinati e banalizzati in posizioni limitate e circoscritte alla
stregua di “curiosità” o di “oggetti interessanti”. Le differenze culturali
sono massificate, in ogni centro commerciale possiamo trovare cibo cinese,
italiano, messicano e magrebino. Il mondo con tutte le sue diversità è tutto
racchiuso lì.
I nonluoghi sono incentrati solamente sul
presente, caratterizzato dalla precarietà assoluta dalla provvisorietà, dal
viaggio, dal passaggio e da un individualismo solitario. Le persone transitano
nei nonluoghi ma nessuno vi abita.
Nel film “The Terminal” di Steven Spielberg,
il protagonista, Tom Hanks, un cittadino di un immaginario stato dell’Europa orientale
atterra a New York e dopo aver scoperto che nel suo stato è avvenuto un colpo
di stato, diviene improvvisamente un uomo senza nazionalità, e perciò
impossibilitato sia a uscire nella tanto agognata New York, sia a fare ritorno
a casa, quindi resta prigioniero e si integra perfettamente nel nonluogo.
I nonluoghi
sono presenti anche sulla moneta Euro, con l’effigie di edifici e
monumenti privi di identità e di storia, a differenza delle immagini presenti
sulla Lira di Caravaggio, Verdi, Montessori, Galileo, Marconi, Colombo …
Gli utenti si accontentano della sicurezza di
poter trovare in qualsiasi angolo del globo la propria catena di ristoranti
preferita o la medesima disposizione degli spazi all’interno di un aeroporto.
Da qui un paradosso: il viaggiatore di passaggio smarrito in un paese
sconosciuto si ritrova solamente nell’anonimato delle autostrade, delle
stazioni di servizio e degli altri nonluoghi. (Villaggio globale, Marshall
McLuhan)
Il rapporto fra i nonluoghi e i suoi abitanti
avviene solitamente tramite simboli, parole o voci preregistrate. L’esempio
lampante sono i cartelli affissi negli aeroporti vietato fumare oppure non
superare la linea bianca davanti agli sportelli. L’individuo nel nonluogo perde
tutte le sue caratteristiche di cittadino e i suoi ruoli personali per
continuare a esistere solo ed esclusivamente come cliente o utente.
Non vi è un riconoscimento delle classi
sociali, come siamo abituati a pensare nel luogo antropologico. Si è
socializzati, identificati e localizzati solo in occasione dell’entrata o
dell’uscita dal nonluogo; per il resto del tempo si è soli e simili a tutti gli
altri utenti/ passeggeri/ clienti/ consumatori che si ritrovano a recitare una
parte che implica il rispetto delle regole.
La società che si vuole democratica non pone
limiti all’accesso ai nonluoghi. Farsi
identificare come consumatori solvibili, attendere il proprio turno, seguire le
istruzioni, fruire del prodotto e pagare.
Anche il concetto di “viaggio” è stato
pesantemente attaccato dalla surmodernità: i grandi “nonluoghi” posseggono
ormai la medesima attrattività turistica di alcuni monumenti storici.
Il più grande centro commerciale degli Stati
Uniti d’America, il “Mall of America“, richiama oltre 40 milioni di visitatori
ogni anno. Scrive il critico Michael Crosbie nella rivista Progressive
Architecture: «Si va al Mall of America con la stessa religiosa devozione con
cui i Cattolici vanno in Vaticano, i Musulmani alla Mecca, i giocatori
d’azzardo a Las Vegas, i bambini a Disneyland».
Anche i centri storici delle città europee si
stanno sempre di più omologando, con i medesimi negozi e ristoranti, il
medesimo modo di vivere delle persone e addirittura gli stessi artisti di
strada. L’identità storica delle città è stata ridotta a stereotipo di richiamo
turistico.
Nell’Europa che tenta di fermare l’ingresso
dei migranti, si crea un’ambivalenza dei nonluoghi: quelli dell’abbondanza, e
quelli della miseria, come campi profughi, centri di detenzione dei migranti et
similia. In essi però l’identità è pericolosa per chi ci si trova, poiché
espone al rischio di espulsione o incarcerazione.
Zigmunt Bauman è stato forse il pensatore, che
ha meglio interpretato il disorientamento contemporaneo. Molti saggi di grande
successo, a partire da Dentro la globalizzazione del 1998, o Modernità liquida
del 2000, lo hanno decretato il guru del pensiero della postmodernità.
La modernità liquida, concetto fra i più noti
del sociologo, ci dice che con la fine delle grandi narrazioni del secolo
scorso sono finite anche le certezze del passato in ogni ambito, dal welfare al
lavoro fisso, dalla sanità pubblica alle pensioni, la postmodernità le ha
smontate tutte, dissacrandole e mescolandole a pulsioni nichilistiche.
L’unica comunità dell’individuo è diventata il
consumo, la sua unità di misura l’individualismo antagonista ed edonista in cui
nuotiamo tutti noi senza più una missione comune. (Amore liquido, 2003 o Vita
liquida, 2005).
La fase che viviamo è propizia alla nascita
dei populismi, che nascono dall’indignazione. Dagli Indignados ad Occupy Wall
Street fino ai movimenti populisti europei, l’ordine costituito viene
fortemente contestato, con istanze naturalmente diverse ma sempre antisistema.
La modernità poggiava sull’etica del lavoro,
perché il capitalismo produttivo aveva bisogno di quadri dirigenziali, che
facessero funzionare le industrie, fonte del proprio profitto, quindi c’era
necessità di welfare, scuola pubblica, benessere per la collettività destinata
a gestire le fabbriche
Al contrario la postmodernità esalta
l’estetica del consumo, che trasforma il mondo in un “immenso campo di
sensazioni sempre più intense”. Un mondo
spesso investito dalla pubblicità o dal venditore di turno.
L’esasperazione della soggettività, trova anche
incredibili attuazioni tecnologiche come la realtà virtuale. (La
solitudine del cittadino globale, 1999)
Bauman
in particolare nel libro “Sesto potere. La sorveglianza nella modernità
liquida” del 2014, parla di un approccio
del tutto diverso rispetto alle strutture di potere. Jeremy Bentham e Michel
Foucault avevano parlato di Panopticon,
inteso come carcere centralizzato che controlla migliaia di detenuti, e
in cui bastano pochi agenti di sicurezza per la custodia, metafora evidente del
potere centralizzato della modernità e del suo controllo sulla società moderna.
Panopticon
Bauman invece parla di un modello di società
in cui le forme di controllo assumono le fattezze dell’intrattenimento e dunque
del consumo, in cui sotto l’attenzione delle organizzazioni transnazionali
finiscono i dati e le persone, o meglio
le loro emanazioni digitali, i cui rischi più elevati sono la privacy, la
libertà di azione e di scelta.
La novità postmoderna è che questo spazio del
controllo ha perso i muri, e a dire il vero non occorrono neanche più i
sorveglianti, visto che le “vittime” contribuiscono a collaborare al loro
stesso controllo. Sono impegnati nell’autopromozione e non hanno gli strumenti
per individuare l’aspetto oscuro nascosto sotto a quello seduttivo.
La globalizzazione è dunque un processo
intimamente legato alle forze di mercato che ha ripercussioni su molti altri
settori della vita, in pratica è una nuova forma d’imperialismo finanziario,
impadronirsi dell’economia degli stati, della loro moneta e della loro sovranità.
Le forze economiche, infatti, hanno trasceso
la dimensione nazionale, hanno perso ogni legame col territorio, dettano legge
e non si prefigurano più come sistema produttivo dell’uomo per l’uomo, ma come
sistema auto-referenziale, fine a se stesso.
Le corporation trasnazionali muovono in uno
spazio extraterritoriale, volano sopra i confini dello stato nazionale, fino ad
oggi strumento di rappresentazione delle identità sociali, eludendo ogni sorta
di controllo politico e collettivo, ignorando le differenze economiche,
politiche, culturali, etniche e religiose delle singole nazioni.
Il potere della globalizzazione economica è
ormai senza volto e senza luogo, introduce la flessibilità come dogma e
preannuncia l’incertezza delle esistenze, vissute nell’affannosa rincorsa per
rimanere nella società dei consumi. Il potere ci tiene in scacco lasciandoci
soli, levandoci qualsiasi capacità di autodeterminazione e programmazione
futura.
Nascere in Italia 40 anni fa significava avere
buone probabilità di vivere la propria vita in quegli stessi luoghi, avere la
speranza di trovare un lavoro vicino a casa, di conoscere i propri
concittadini, la possibilità di fare previsioni verosimili sul proprio futuro.
Oggi, si nasce in luoghi che mediamente
vengono lasciati nella prima adolescenza, i giovani seguono opportunità di lavoro fugaci, sempre più
volatili ed evanescenti, i lavoratori vengono assunti in aziende che da un
momento all’altro potrebbero delocalizzare.
Le spinte all’individualismo e alla
competizione determinano questo stile di vita veloce che porta con sé nuova
alienazione: quella dell’uomo e dei suoi rapporti. Per il cittadino globale la
leggerezza e la velocità di spostamento sono caratteristiche fondamentali, meno
vincoli si hanno e più si è pronti alla sopravvivenza nella selva-mondo
virtuale, senza barriere né confini.
Anche le relazioni umane, dice Bauman, si
adeguano e si plasmano sulla base di un consumo ipertrofico, sono sempre più
numerose ma sempre più brevi e superficiali. E così, la nostra situazione
affonda in un mare di indifferenza, che è l’unica arma di difesa valida a breve
termine nei confronti dell’incertezza di ogni giorno.
Nella postmodernità è nata una nuova immagine
di società, come spazio che racchiude una molteplicità di individui senza più
alcuna cornice comune, sempre più uguali nei loro destini ma sempre più divisi
e soli nelle proprie vite. Aumenta poi costantemente il divario tra la
condizione dei poveri e quello dei ricchi.
Il populismo, in modo particolare il M5S, per
quanto riguarda la situazione italiana, è quindi la reazione culturale e
politica rispetto alle condizioni sociali drasticamente mutate nel tempo della
postmodernità, dopo il golpe messo in atto dalla nuova classe sociale
dominante, quell’aristocrazia finanziaria che mira a distruggere i diritti del
lavoro, a proletarizzare la middle class, a desovranizzare gli stati, ad
americanizzare l’Europa.
Data la potenza propagandistica dei media,
riuscirà veramente a vincere le prossime elezioni politiche e a prendere il
potere? Oppure sarà costretto inevitabilmente ad abbandonare istanze essenziali
delle proprie battaglie, soggiogato dalla potenza della restaurazione liberista
?