Thursday, December 30, 2021

DOH -

 

Doh

[dòh]

SIGN Imprecazione di disappunto e frustrazione; anticamente, interiezione dai significati molteplici, fra cui rimprovero, sdegno, meraviglia o esortazione

voce onomatopeica.

Ma veramente l’imprecazione tipica di Homer Simpson si trova a registrata sul Vocabolario degli Accademici della Crusca, ed è attestata in italiano dalla fine del Trecento? La risposta breve è ‘no’, ma c’è qualcosa di profondamente curioso e in un certo senso sbagliato, in questo ‘no’.

Homer Simpson, fra i protagonisti della più celebre serie comica animata al mondo (I Simpson, iniziata negli anni ‘90) esprime il proprio disappunto esclamando un sonoro doh, spesso graficamente reso come d’oh. Si tratta del modo in cui il doppiatore originale di Homer Simpson, Dan Castellaneta, ha reso la dicitura che sulla sceneggiatura compariva come annoyed grunt (diciamo ‘grugnito infastidito’) con cui Homer doveva reagire in certi casi, e che è diventata la sua reazione distintiva. Castellaneta però non ha inventato questa esclamazione; l’ha mutuata da un attore del cinema comico, diventato celebre fra gli anni ‘20 e ‘30 specie come spalla di Stanlio e Ollio: James Finlayson. Per ammorbidire l’esclamazione di disappunto ‘Damn!’ era solito proferire un eufemistico ‘Doh-ho!’ (ne possiamo vedere e sentire un esempio qui), più protratto e meno grugnito del ‘Doh’ homerico.

Ora, attraversando la nostra letteratura, specie più antica, capita di imbattersi in non pochi doh. Si trova proposto (nelle fonti che se ne interessano) che questa interiezione abbia un’origine espressiva, onomatopeica — ma mentre il doh di Homer ha un significato piuttosto netto, il doh dell’italiano antico ne aveva di variegatissimi: oltre ad essere una generica imprecazione, poteva comunicare riprensione e rimprovero, come anche sdegno disappunto e rammarico, ma poteva orientarsi al positivo trasmettendo desiderio e meraviglia, e perfino introdurre un’ esortazione o una preghiera. Potevo quindi dire “Doh, che cretino” e “Doh, che bellezza”, “Doh, come vorrei una fetta di torta” e “Doh, pensaci tu!”. Spesso le nostre interiezioni hanno spettri di simile ampiezza (pensiamo alle versatilità di ‘oh’, ‘ah’, ma anche ‘cavolo’ e simili), però il doh è stato a mano a mano dismesso…

PER NON DIMENTICARE...


[pro-me-tè-i-co]

SIGN Di Prometeo; che esprime una ribellione, una sfida a forze o autorità superiori, anche votata al fallimento

dal nome di [Prometeo], titano del mito classico.

Il mito vive su due binari molto diversi: da un lato i riferimenti mitologici hanno dei tratti aulici, statuari, marmorei, di cultura elevatissima, e afferiscono a grandi bacini letterari; dall’altro consiste di narrazioni a cui ancora oggi viene esposta la prima gioventù e che variamente ci accompagnano per tutta la vita, con una forte risonanza popolare: gli elementi del mito diventati proverbiali non si contano.

Gabriella Carlucci


[ca-so-mà-i]

SIGN Nel caso che; semmai

unione di [caso] e [mai].

Parola corrente, semplicissima, che non balza all’occhio. Addirittura pare una mera giustapposizione fra due parole ancora più comuni, quanto possono esserlo ‘caso’ e ‘mai’. E che però crea una sinergia poetica di sintesi formidabile: è in queste forze discrete, che non si fanno notare che sta la gran parte dell’intensità retorica del nostro discorso. Diciamolo subito: è merito del ‘mai’, un ingrediente cardinale, dalla versatilità incredibile — ma la sua enfasi sta tutta nel ‘caso’.

Il casomai conduce una doppia vita, come congiunzione e come avverbio. Nella prima veste significa ‘eventualmente, nel caso che’: «Casomai non ci vedessimo prima di capodanno, buona fine e buon inizio», dice la persona che non ha intenzione di contattarti per rifarti gli auguri; «Non ti disturbare, casomai ne avessi bisogno lo andrei a prendere io» dice la persona che non sa ancora se è proprio necessario questo recupero, e che avanza un’ipotesi poco probabile.
Nella seconda veste, quella avverbiale, ha un atteggiamento restrittivo: mi dici che dovresti essere casomai tu a lamentarti, e non io, mentre io chiarisco che alle poste passerò casomai domani…


 

Sabina Began

Saturday, December 18, 2021

ENTAGLEMENT

 entanglement quantistico, o correlazione quantistica, è un fenomeno quantistico, non riducibile alla meccanica classica, per cui, in determinate condizioni, due o più sistemi fisici rappresentano sottosistemi di un sistema più ampio il cui stato quantico non è descrivibile singolarmente, ma solo come sovrapposizione di più stati. Da ciò consegue che la misura di un'osservabile di un sistema (sottosistema) determini simultaneamente il valore anche per gli altri.

Poiché risulta possibile dal punto di vista sperimentale che tali sistemi (sottosistemi) si trovino spazialmente separati, l'entanglement implica in modo controintuitivo la presenza di correlazioni a distanza, teoricamente senza alcun limite, tra le loro quantità fisiche, determinando il carattere non locale della teoria.

Il termine entanglement (letteralmente, in inglese, "groviglio", "intreccio") fu introdotto da Erwin Schrödinger in una recensione del famoso articolo sul paradosso EPR[1], che nel 1935 rivelò a livello teorico il fenomeno.



Saturday, December 04, 2021

Ecco le 13 parole più usate nel mondo nel 2021

 

Ecco le 13 parole più usate nel mondo nel 2021

di Lorenzo Nicolao

L’anno sta terminando, ma tante espressioni hanno già segnato il contesto storico degli ultimi dodici mesi. Dallo sport alla pandemia, dal clima al Governo Draghi

La ricerca

Molti avvenimenti e tanti risvolti internazionali. Anche il 2021 è stato un anno da ricordare, da una parte per i successi degli atleti azzurri, dall’altra per l’emergenza pandemica e quella climatica, fino alla formazione del Governo Draghi a febbraio o all’addio di Angela Merkel alla politica tedesca. Anche la lingua segna gli episodi più significativi di un mondo in costante cambiamento. Gli esperti di lingue di Babbel hanno così selezionato, in vista della fine dell’anno, i termini e le espressioni più utilizzate negli ultimi dodici mesi e quelli che meglio daranno idea in futuro di cosa è accaduto in un anno in parte di transizione, ma ancora particolarmente condizionato dal Covid-19.

Thursday, November 04, 2021

GRAMMUFFASTRONZOLO

 Vincenzo Monti (il traduttore omerico del “Cantami o diva del Pelide Achille...”), il quale a sua volta lavorò sul Vocabolario della Crusca, scrivendo un suo libro di proposte, e che irrise con ironia aspra Cesari e la sua Crusca veronese. Va bene riusare espressioni antiche di bellezza eterna, ma serve misura, non si può farcire la lingua di anticaglie da museo. In particolare, in lettere private, Monti apostrofò Cesari proprio con uno dei bizzarri termini trecenteschi recuperati nel lavoro di Cesari: grammuffastronzolo.

Si tratta di un epiteto che non rimane il più usato nella storia della nostra letteratura: descrive il grammatico pedante e da strapazzo, e nasce da ‘grammuffa’. Questa è un’alterazione scherzosa di ‘grammatica’ (che naturalmente fa aggio sull’associazione del gran sapere col muffito), e in espressioni come ‘parlare in grammuffa’, o ‘per grammuffo’, racconta un modo di esprimersi impenetrabile, con solennità magniloquente e magari latineggiante. La gratuità della composizione con l’affettuoso diminutivo ‘stronzolo’ chiude meravigliosamente il cerchio, ribaltando in un’ironia immediata e blandamente graffiante chi atteggia una gran levatura…

Thursday, October 28, 2021

TISANA - ONTOLOGIA - PANTERA

 

[ti-sà-na]

SIGN Infuso o decotto benefico di varie sostanze vegetali

voce dotta recuperata dal latino [tìsana], variante di [ptìsana], prestito dal greco [ptisáne], derivato da [ptíssein] ‘tritare, pestare’

Sul cuore della Terra ogni persona sa che le tisane fanno bene alla salute, anzi che siano composte proprio per avere effetti benefici sul fisico: perciò va da sé che siano così chiamate perché la tisana ‘ti sana’. E invece no.

Questo è un esempio di etimologia popolare, che inizia ad echeggiare fra chi crede che la storia delle parole resti sempre visibile sulla loro superficie come olio nell’acqua. La realtà sull’origine del nome della tisana è diversa — e ci farà fare i conti con una nozione davvero mobile.

Il greco ptisáne (qui l’accentazione italiana segue quella greca, non la latina) è derivato dal verbo ptíssein, che significa ‘tritare, pestare’. Il nucleo originario di significato della tisana che ci porta questo verbo non sta tanto in un effetto sul corpo o in una tipologia di ingredienti, ma nel modo in cui tali ingredienti sono pestati e ridotti in poltiglia. Un’origine tutt’altro che accessibile a una prima occhiata, anche perché il verbo ptíssein non ha altri esiti nella nostra lingua, quindi è un volto ignoto.

Il punto interessante è che però la tisana, da millenni e fin quasi ai giorni nostri, ha avuto un ingrediente quasi invariabile che adesso ci perplime: l’orzo. La tisana era specificamente il decotto d’orzo — una sbobba versatilissima, da usare da sé come bevanda medicamentosa o come impiastro emolliente, o anche come eccipiente d’altri principi attivi, la cui invenzione si fa miticamente risalire allo stesso Ippocrate…

 


[on-to-lo-gì-a]

SIGN Parte della filosofia che studia l’essere in quanto essere, indipendentemente dalle sue manifestazioni particolari

dal latino moderno [ontologia], composto del greco [ón] ‘ente, che è’, e [-logia] ‘studio’

Che parolone, ontologia: uno di quei termini filosofici che intimoriscono a prima vista. Eppure, in teoria avrebbe un significato semplice: discorso, trattazione, studio (dal greco lógos) sull’essere, su ciò che è (in greco ón, óntos è il participio presente di eimí, ‘io sono’). Già, ma cosa sarebbe mai questa strana forma verbale sostantivata, l’essere? Nel linguaggio quotidiano, di solito la usiamo per indicare enti determinati, numerabili (in fondo al mare vivono strani esseri; sei un essere speciale). Ma nell’ontologia non si tratta degli esseri, bensì dell‘essere; non delle cose fatte così o così, con le loro varie e mutevoli determinazioni, ma delle cose in quanto, semplicemente, sono — dell’essere in quanto essere.

 

 


[pan-tè-ra]

SIGN Genere di mammiferi carnivori cui appartengono il leone, la tigre, il leopardo, il giaguaro e il leopardo delle nevi. Nel linguaggio comune ‘pantera’ indica solitamente, per antonomasia, la ‘pantera nera’, termine che non definisce una specie in particolare ma include potenzialmente tutti gli esemplari melanici del genere panthera, anche se nell’immaginario tende a coincidere con il leopardo nero

dal latino [panthera], a sua volta derivato dal greco [panther], presumibilmente ricollegabile al sanscrito [puṇḍarīka], ‘tigre’.

Periodicamente i giornali segnalano che da qualche parte è stata avvistata una pantera. A volte si tratta di un altro animale, sì, ma di solito è una pantera, forse anche perché è più facile confonderla con un grosso cane o gatto. Comunque la cosa è curiosa: pare quasi che una parte di noi si aspetti di incontrare una pantera prima o dopo.

Anche la letteratura porta le tracce di questo animale evanescente, che si fa presentire ovunque senza lasciarsi catturare. In particolare Dante, nel De vulgari eloquentia, lo prende a emblema dell’italiano “perfetto”, che spande il suo profumo per le parlate regionali ma non si identifica con nessuna.

Il paragone si fonda su una curiosa idea, già aristotelica: la pantera avrebbe il potere d’irretire con il suo profumo tutti gli animali, per poi divorarli con comodità. In effetti, a detta di Isidoro da Siviglia, il suo nome alluderebbe proprio a questo fascino universale (‘pan’ in greco significa ‘tutto’).

L’idea ha spopolato nella letteratura medievale, tanto che alcuni ne hanno tratto spunto per allegorie cristologiche, altri per lodare il profumato respiro della propria donna. Dante ha portato questo topos in una nuova direzione; ed è sul suo esempio che, secoli dopo, Giorgio Caproni ha concretizzato in una bestia sfuggente (definita in un’occasione ‘pantera’) concetti onnipresenti e inafferrabili insieme: la poesia, l’identità personale, il male, Dio.

Anche la simpatica pantera rosa viene in fondo da qui. Nasce infatti nei titoli di testa del film omonimo (1963) come personificazione di un diamante di grande valore, che scivola tra le dita di tutti i protagonisti. I titoli ebbero un successo tale da dare vita a un personaggio autonomo, indefinibile e irreale come la pantera dantesca, e dotato di una sofisticheria un po’ snob.

Peraltro la pantera sfugge anche alle maglie della classificazione linguistica. Nell’uso odierno questa parola designa per antonomasia la pantera nera che però, scientificamente parlando, non esiste. Esistono diverse specie appartenenti al genere panthera, di cui la più nota è il leopardo, e alcuni esemplari di queste specie nascono a volte con il pelo più scuro della norma (hanno ancora le macchie, ma essendo ton sur ton non si notano).

Insomma, se la società felina avesse leggi antirazziste, parlare della pantera nera come di una specie a sé porterebbe di certo a multe salate. E in effetti la storia della pantera si è intrecciata davvero a quella delle lotte contro il razzismo: il Black Panther Party era la celebre organizzazione che combatté – con metodi controversi – per i diritti degli afroamericani; e agli stessi anni risale la creazione di Black Panther, conosciuto come il primo supereroe nero…

 

Saturday, October 23, 2021

CIRCONFUSO

 

[cir-con-fón-de-re (io cir-con-fón-do)]

SIGN Circondare sparsamente qualcosa o qualcuno, pervadere, avvolgerne l’intorno

voce dotta recuperata dal latino [circumfùndere] ‘spargere intorno’, composto di [circum] ‘intorno’ e [fùndere] ‘spargere’.

Questa è una parola in cui trattenersi. Spesso i dizionari la marcano come letteraria, e questo può farci pensare che debba restare un passo fuori dai nostri discorsi, che sia adatta a cantare qualcosa di maggiore rispetto all’umile nostra vita comune. Non è così: lo sguardo, la sensibilità della lingua letteraria è spesso accessibile, e anzi è proprio quello che si cerca, ciò che permette di non perdersi le sottigliezze della vita.

A ripensarci, ad anni di distanza, mi ricordo quel gruppo di amiche e amici circonfuso nella luce del tramonto sulla spiaggia; vedo te e il tuo volto circonfuso di riccioli indomiti; partiamo per la passeggiata di buon mattino, quando le cime dei colli sono circonfuse di nubi; una pala d’altare può essere circonfusa da un alone di mistero — chi l’ha dipinta, da uno di leggenda; e non è la sola musica, ma un’aura più sottile a circonfondere il musicista seduto al pianoforte.


 

Definire il ‘circonfondere’ — che come vediamo ha la versatilità di attagliarsi a luci, capelli, aure, dicerie, nebbie e non solo — non è semplice. Si potrebbe dire ‘circondare’, ma ‘circondare’ è un’azione molto fisica, spessa, corporea. Il ‘pervadere’ invade, non sta solo intorno. Un ‘avvolgere’ ci evocherebbe uno stringere, un involtare forse più leggero, ma con un tratto di chiusura. Chiediamo all’etimologia…