Monday, January 22, 2018

La parola del giorno è

Sgattaiolare

[sgat-ta-io-là-re (io sgat-tà-io-lo)]
SIGN Riferito a gatti, uscire o passare per strette aperture; entrare o uscire, allontanarsi o avvicinarsi di soppiatto; sottrarsi a qualcosa di indesiderato
derivato di [gattaiola], col prefisso [s-] che indica uscita, allontanamento.
Anche questa parola deve la sua potenza espressiva al richiamo di un comportamento direttamente osservabile nella realtà: in questo caso è il peculiare modo che hanno i gatti di entrare o uscire per aperture strette - sintetizzate dalla parola (emersa nell'Ottocento) nell'immagine della gattaiola.
Il forte sta in due punti: il primo è il modo. Lo sgattaiolare evoca un movimento che ha alcuni caratteri del movimento dei gatti: è silenzioso, svelto, disinvolto, e permette di passare inosservati. Quindi più che su caratteri estetici, si concentra su caratteri funzionali - tant'è che per esempio non è detto che lo sgattaiolare sia elegante, basta sia quatto, rapido e discreto.
Il secondo è la direzione. Questo movimento è sempre colto nel suo dirigersi - fuori, dentro, lontano, vicino, esplicitamente o no. Al concerto l'amica riesce a sgattaiolare nelle prime file attraverso la calca; a casa della bella, sentendo i genitori che rientrano il fidanzato sgattaiola via scavalcando il muro del giardino; e appena s'inizia a ventilare la necessità di assegnare qualche lavoro ingrato il collega se la sgattaiola lesto adducendo ben altre urgenze.
Esempio simpatico di come il mondo animale sia continua fonte di suggestioni linguistiche, in una parola particolarmente precisa, colorita e di sicura presa.
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Proludere

[pro-lù-de-re (io pro-lù-do)]
SIGN Iniziare a parlare; introdurre
dal latino [prolùdere] 'esercitarsi, prepararsi', composto di [pro-] 'prima' e [lùdere] 'giocare'.
Di questa fascinosa parola si può dire qualcosa di facile e cercare di dire qualcosa di difficile.
Il suo significato è piuttosto piano: proludere significa iniziare un discorso, esponendo, narrando. Può anche essere l'iniziare un discorso molto articolato, tanto da diventare un introdurre, anzi accademicamente il fare una lezione introduttiva. Questo cominciare non è però solo un cominciare: l'etimologia ci spiega che c'è un connotato di preparazione, nel proludere, di esercitazione. Il personaggio famoso prolude nel più profondo silenzio della platea; il relatore prolude con una notazione lessicale che renderà più chiaro il prosieguo del suo discorso; e durante la cerimonia ogni intervento è tutto un proludere senza contenuti.
È un significato molto preciso. E viene da domandarsi - ecco il difficile - quale sia la differenza fra 'proludere' e 'preludere'. Dopotutto, in latino i loro omologhi ebbero il medesimo significato di esercitarsi, di prepararsi a una prova - a un gioco. Ebbene, il mantra che ripetiamo è "non esistono sinonimi perfetti". Ma alcune volte cogliere le differenze di sfumatura fra due parole è quasi impossibile: esistono solo degli assestamenti d'uso differenti, quando va bene, e quando va male ci sono solo differenti impressioni. Anche il preludere consiste in un introdurre. Ma possiamo intuire questo: il preludere ha più marcati i tratti di un anticipare, di un introdurre che resta distinto da ciò che viene introdotto. Insomma, fra il preludio e ciò a cui prelude c'è una cesura. Nel proludere no. È un iniziare senza soluzione di continuità col seguito. Il discorso, cominciato nella prolusione, prosegue senza interruzioni. Non so se la risposta sia incontrovertibilmente questa, ma poco importa, quando la domanda è buona. E poche cose affinano il pensiero quanto cercare di cogliere le diversità fra sinonimi.
Ad ogni modo, il proludere rimane un termine ricercato ma piuttosto pronto, ideale per significare quell'abbrivo proprio di esposizioni e narrazioni massicce.
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IL LATO B
143 ritratti da sturbo
OH, CHE BEL SEDERE
non è una rassegna di sedie e divani ma un'Antologia per la contemplazione della parte anatomica più eloquente del corpo femminile. Oltre aI 143 lati b più notevoli passati recentemente sul Web , questa raccolta contiene poesie, letteratura, articoli stampa e note passate sui social. In Appendice una piccola storia illustrata del lato B dal dopoguerra a ieri.





salutare



La parola del giorno è

Salutare

[sa-lu-tà-re (io sa-lù-to)]
SIGN Rivolgere a una persona formule o gesti di amicizia, di rispetto, nel momento in cui la si incontra o la si lascia; accogliere; abbandonare; fare visita; acclamare
dal latino [salutare] 'augurare salute', ma anche 'acclamare, visitare, adorare', derivato di [sàlus] 'salute'.
L'augurio convenevole che riguarda la salute non ci stupisce: dal 'salve' allo 'stammi bene' ne usiamo comunemente una batteria notevole. Ed è così da tempo immemore. Non stupisce quindi che l'intero genere di formule e gesti con cui accompagnamo l'incontro e la separazione porti il nome del salutare.
Ciò che invece è stupendo è l'articolata ricchezza di significati di questo verbo al di là della formula e del gesto di saluto, polarizzati giusto nei momenti del ritrovo e del commiato. Saluto la primavera con gioia e buoni propositi, saluto l'arrivo degli ospiti, la città saluta i soccorritori: così è un accogliere, fino all'acclamazione. Saluto la compagnia quando mi appresto a un lungo viaggio, saluto la prospettiva ormai sfumata: così è un dare l'arrivederci o l' addio.
Il nocciolo invariabile del significato di 'salutare' sta nel suo essere un atto di rispetto, di riconoscimento: nel salutare vediamo e diamo valore a chi o ciò che salutiamo. In questo senso emerge con forza il 'salutare' nel senso di 'visitare': se passo a salutare (momento breve, in cui giungo e riparto subito), il mio è un atto di cortesia semplice e intensa, se non di omaggio. Anche se, in effetti, questo verbo ha il profilo di un' enantiosemia in cui alternamente coesistono l'arrivo e l'abbandono: il giocatore saluta la nuova stagione calcistica sia quando firma il contratto nella fremente aspettativa generale sia quando gli saltano i legamenti.
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(Dante, Ne li occhi porta la mia donna Amore, nella Vita nova)
Ne li occhi porta la mia donna Amore,
per che si fa gentil ciò ch’ella mira;
ov’ella passa, ogn’om ver lei si gira,
e cui saluta fa tremar lo core,
sì che, bassando il viso, tutto smore,
e d’ogni suo difetto allor sospira:
fugge dinanzi a lei superbia ed ira […]
Quel ch’ella par quando un poco sorride,
non si pò dicer né tenere a mente,
sì è novo miracolo e gentile.

La Vita Nova, opera giovanile, è in sostanza l’antefatto della Commedia, poiché narra la nascita dell’amore per Beatrice.
Dante la incontra la prima volta a nove anni, e subito ne è innamorato perso. Per anni, però, la ammira a distanza, sempre impacciatissimo. È anche un po’ ridicolo, povero Dante, tanto che le amiche di Beatrice si prendono volentieri gioco di lui.
Alla fine capisce che il suo amore non potrà mai essere ricambiato; ma in fondo poco importa. Esso rimane un’esperienza essenziale e trasformante: diventa il perno di una “Vita nuova”, improntata a una lode grata, stupita, e totalmente gratuita. Questo sonetto ne è un esempio.
Beatrice diventa così l’emblema di una bellezza salvatrice, umana e divina al tempo stesso. La sua anima è tanto pura e autentica che anche un semplice saluto sulle sue labbra non è più una convenzione. È veramente un augurio di salute: ossia una partecipazione alla sorte dell’altro, nutrita di rispetto e tenerezza. Diventa, persino, uno strumento di salvezza: rende i cuori più “gentili”, e li fa vergognare dei propri difetti. Perciò ogni uomo prima si volta a guardare Beatrice e poi, ricevuto il suo saluto, abbassa gli occhi impallidendo (“smore”), con insolita timidezza.
Certo, è una descrizione idealizzata, piena di topoi letterari. Ma è anche nutrita dalla diretta esperienza di un innamorato timido, per il quale il saluto – unico filo che lo legasse all’amata – ha assunto, nella sua banalità, un peso specifico enorme.
Peraltro anche per noi sarebbe interessante recuperare il senso forte del “buongiorno” che diciamo usualmente; e portare così, ovunque andiamo, l’amore “negli occhi”.
Non parliamo poi di quando al saluto si aggiunge un sorriso. Lì lo sguardo innamorato – e perciò più acuto – di Dante coglie una bellezza tale che non sembra appartenere a questo mondo. Un “miracolo” impossibile da spiegare a parole, ma che il cuore riconosce subito.
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Dimergolare

[di-mer-go-là-re (io di-mèr-go-lo)]
SIGN Rimuovere un chiodo agitandolo; scuotere; barcollare, tentennare
dal latino [demergulare], derivato da [merga] 'forcone'.
Non siamo davanti a una parola che scoppia di vigore, forte di un uso vivace e diffuso. Se le parole morissero, anzi, potremmo dire che questa non si sa nemmeno più dov'è sepolta. Ma le parole non muoiono, al massimo vengono scordate, e questa è meravigliosa - di una meraviglia molto specifica.
Ci sono centinaia di gesti minutissimi che compiamo senza dar loro un nome. Questo è uno di quelli, ma si può rimediare: davanti a qualcosa (pensiamo un chiodo) rimasto conficcato (pensiamo nel legno) cerchiamo di rimuoverlo con la stretta delle dita o con una pinza. Il movimento che facciamo, specie se non c'importa molto di rovinare il materiale in cui è confitto, è il dimergolare. Una serie di movimenti da una parte all'altra, o circolari, che lo smuovono e gli allargano lo spazio perché possa essere divelto. Un movimento che abbiamo naturalmente nelle mani, più che nelle parole.
Ebbene, pare che questo verbo derivi dal latino merga, il forcone, il tridente che si usa per i covoni: infilate le punte nel fascio di spighe, per poi posarlo si deve scrollare il forcone - e di qui nasce il dimergolare, che in riferimento al chiodo trova un uso speciale rispetto a questo generale scuotere. Dimergolo il mestolo in cui sono rimaste infilate rondelle di porro, dimergolo la trivella a mano che resta incastrata nell'argilla, arrivato il mio turno dimergolo le freccette e tiro con audacia ("Non si preoccupi signora, il sangue smette di uscire subito"). A questo scuotimento si accosta poi il significato di tentennare, di barcollare, così come si fa tentennare il chiodo: si piazza il digestivo della nonna sul tavolo e venti minuti dopo tutti dimergolano allegramente; gli scaffali montati male dimergolano pericolosamente ogni volta che qualcuno ci appoggia sopra qualcosa; e chi non è avvezzo dimergola sul terreno accidentato.
Non so come ho potuto farne a meno.
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Sunday, January 21, 2018

Il quadro è falso ma la cornice preziosissima è autentica. Intendo dire che il delitto e i protagonisti sono inventati ma la scoperta archeologica e gli avvenimenti in cui si svolge la vicenda sono autentici. Si tratta di una scoperta che potrebbe sconvolgere l'archeologia moderna, ma manca la prova regina, che questa storia invece usa come motivo di un delitto, che inizia come uno scherzo con uno scambio di coppie ma diventa un incubo 







La parola del giorno è

Collabente

[col-la-bèn-te]
SIGN Di un organo cavo, afflosciato fino a far toccare le sue opposte pareti; di un edificio, in rovina
participio presente del verbo [collabire], voce dotta recuperata dal latino [collabi] 'squassarsi, cadere'.
Una parola che viene usata solo nel lessico medico e in quello catastale può non conquistare tutti al primo sguardo. Ma l'immagine che vi troviamo è talmente forte e riconoscibile che potrebbe essere usata in maniera ben più variegata.
È il participio presente del verbo 'collabire', usato nei medesimi contesti. Si tratta di un latinismo, emerso solo negli anni Cinquanta: l'originale verbo collabi (propriamente 'cadere insieme') descriveva uno sconquassarsi, un crollare, ed è stato recuperato, in ambito medico, con un significato molto preciso: collabiscono gli organi cavi che si afflosciano tanto da far toccare le loro opposte pareti, anche fino a farle combaciare del tutto - per fisiologica conformazione o per patologia. Ad esempio si può descrivere l'uretra come un canale collabente, si può parlare di come la scarsa pressione faccia collabire il vaso sanguigno.
Queste immagini sono state impiegate anche nel lessico edilizio e catastale per quegli edifici inagibili che versano in condizioni di irrecuperabile rovina e ormai valgono il terreno su cui sono costruiti - quasi che il tempo li abbia fatti afflosciare come una vescica moscia, col tetto sgonfio e i muri marciti che smottano gli uni sugli altri. Non rovine romantiche.
immagini forti, di bella presa, e che non troviamo solo qui. Ci mangiamo, in torva solitudine, il soufflé collabente che ieri sera non abbiamo avuto il cuore di servire agli ospiti; l'amico alla festa indossa un'alta corona di carta collabente che gli ciondola ai lati della testa; e per non far finire l'estate ci rifiutiamo inconsciamente di mettere via la piscina gonfiabile, ormai collabente e piena di alghe e girini.
Insomma, è una parola molto più utile di quel che pare: ci permette di infilare in maniera incisiva nei nostri discorsi l'immagine esatta, e davvero ricorrente, della cavità che si affloscia su sé stessa. Mica male.
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Dimergolare

[di-mer-go-là-re (io di-mèr-go-lo)]
SIGN Rimuovere un chiodo agitandolo; scuotere; barcollare, tentennare
dal latino [demergulare], derivato da [merga] 'forcone'.
Non siamo davanti a una parola che scoppia di vigore, forte di un uso vivace e diffuso. Se le parole morissero, anzi, potremmo dire che questa non si sa nemmeno più dov'è sepolta. Ma le parole non muoiono, al massimo vengono scordate, e questa è meravigliosa - di una meraviglia molto specifica.
Ci sono centinaia di gesti minutissimi che compiamo senza dar loro un nome. Questo è uno di quelli, ma si può rimediare: davanti a qualcosa (pensiamo un chiodo) rimasto conficcato (pensiamo nel legno) cerchiamo di rimuoverlo con la stretta delle dita o con una pinza. Il movimento che facciamo, specie se non c'importa molto di rovinare il materiale in cui è confitto, è il dimergolare. Una serie di movimenti da una parte all'altra, o circolari, che lo smuovono e gli allargano lo spazio perché possa essere divelto. Un movimento che abbiamo naturalmente nelle mani, più che nelle parole.
Ebbene, pare che questo verbo derivi dal latino merga, il forcone, il tridente che si usa per i covoni: infilate le punte nel fascio di spighe, per poi posarlo si deve scrollare il forcone - e di qui nasce il dimergolare, che in riferimento al chiodo trova un uso speciale rispetto a questo generale scuotere. Dimergolo il mestolo in cui sono rimaste infilate rondelle di porro, dimergolo la trivella a mano che resta incastrata nell'argilla, arrivato il mio turno dimergolo le freccette e tiro con audacia ("Non si preoccupi signora, il sangue smette di uscire subito"). A questo scuotimento si accosta poi il significato di tentennare, di barcollare, così come si fa tentennare il chiodo: si piazza il digestivo della nonna sul tavolo e venti minuti dopo tutti dimergolano allegramente; gli scaffali montati male dimergolano pericolosamente ogni volta che qualcuno ci appoggia sopra qualcosa; e chi non è avvezzo dimergola sul terreno accidentato.
Non so come ho potuto farne a meno.
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Saturday, January 20, 2018

CALAMITA' - ABOLIRE

La parola del giorno è

Calamità

[ca-la-mi-tà]
SIGN Disgrazia, sciagura di grande portata
dal latino [calamitas] 'disgrazia, rovina', di origine non latina.
Questa parola viene usata perlopiù in espressioni come 'calamità naturale', o 'stato di calamità': espressioni che troviamo sui quotidiani, tanto ripetute da far perdere la vivida, esatta dimensione di questa parola.
Siamo davanti a una parola grossa, grave: descrive non una semplice disgrazia o sciagura, che può avere anche una dimensione intima, e nemmeno una catastrofe vasta di sapore apocalittico. La calamità è un evento funesto e preciso che colpisce un gran numero di persone, un'intera comunità. Si parla di come la siccità sia una calamità che gli agricoltori devono fronteggiare sempre più spesso; davanti alla pubblica calamità di un'epidemia si discutono le contromisure d'igiene pubblica; e si nota come l'allignare di certe idee possa essere una vera calamità.
Però spesso accade che le parole più cupe abbiano degli esiti ironici, e anche questo è il caso: la disgrazia collettiva si fa iperbolica e scherzosa. Il cucciolo indomabile è una calamità per il mobilio, il successo del programma televisivo è una calamità culturale, e lo zio paga una fortuna d'assicurazione perché al volante è una calamità.
Una parola intensa, che chiede d'essere usata con estro.
(Ah, ma c'entra qualcosa con la 'calamita', il magnete? La risposta è no: purtroppo, però, l'incertezza delle ricostruzioni etimologiche non permette confronti simpatici.)


Socialite

[socialàit]
SIGN Persona che deve la sua notorietà alla frequentazione dell'alta società e alla partecipazione assidua a eventi mondani
voce inglese, derivato di [social].
Questo termine è uno dei tanti prodotti della capacità di innovazione linguistica della stampa e dei media in generale, che si esprime spesso attraverso giochi di parole e formazione di derivati. Usando come elementi di base una parola molto antica come social ed un suffisso di derivazione latina che indica relazione o appartenenza (corrispondente al nostro -ita, dal latino -ita a sua volta dal greco -itis), agli inizi del secolo scorso i giornali inglesi hanno creato questo neologismo. Il richiamo diretto è quello alla mondanità, al regno dell’alta società dove è tutto un susseguirsi di eventi e di apparenze scintillanti. E difatti è anche probabile, e qui subentra la tipica creatività del settore, che si sia partiti dal sintagma social light e, per assonanza, si sia utilizzato il suffisso di cui abbiamo detto.
Socialite è quindi chi ottiene una certa fama grazie alla sua presenza assidua in occasione di feste ed incontri organizzati nel gran mondo: la proprietaria dell’atelier cerca in tutti i modi di accontentare la socialite esigente, giovani in cerca di celebrità tentano di entrare nell'orbita della socialite più in vista, e l’attrice che rischia di cadere in disgrazia continua a comparire tra le pagine dei rotocalchi soltanto per le sue doti di socialite.
In italiano la parola è stata introdotta molto recentemente: diversi dizionari non l’hanno ancora inserita tra i propri lemmi, e l’uso è quasi esclusivamente limitato alla stampa, dove viene spesso sfruttata per evocare frivolezza, eccessivo sfoggio di lusso e notorietà in qualche modo immeritata perché non legata ad alcun valore o capacità personali concreti. Difficile trovare un vero e proprio sinonimo; più semplice sarebbe, probabilmente, ricalcare il termine con socialita, forse però troppo simile al già presente socialità per potersi imporre senza creare confusione.



Abolire

[a-bo-lì-re (io a-bo-lì-sco)]
SIGN Cancellare una norma, una consuetudine, un'istituzione; eliminare distruggere, ridurre a niente
dal latino [abolere] 'cancellare, distruggere', forma più tarda di [abolescere] 'perire, spengersi', di etimo incerto.
In questa parola, che specie in questi tempi di campagna elettorale ci echeggia nell'orecchio, possiamo osservare un fenomeno ricorrente, che ne coinvolge i significati. Quando, in una medesima parola, un uso diventa smaccatamente preponderante sugli altri, talvolta contribuisce a farci sembrare questi ultimi sempre più strani: li usiamo meno, e la parola si impoverisce.
Abolire. In questo verbo tendenzialmente, con un atto di volontà forte, con un atto d'autorità, si cancella qualcosa (norme, pratiche) che è stato istituito o che esiste per consuetudine. La matrice è giuridica. Si promette di abolire una legge impopolare, si festeggia la ricorrenza di quando fu abolita la pena di morte, si abolisce l'ente inutile; così come, con una sfumatura che accarezza il rinunciare, il medico ci impone di abolire il consumo di alcolici, e ci ripromettiamo di abolire certe parole sconvenienti dal nostro vocabolario - almeno in pubblico.
Ma prima di questi significati specifici, che ci sono consueti, l'abolire ha un significato più generale, ossia quello di ridurre a niente, di spengere, di distruggere. Ad esempio cambiando casa aboliamo un ricordo doloroso, la prova lampante abolisce ogni dubbio, la giusta compagnia abolisce il senso normale del passare del tempo, e alla fine della giornata sfiancante mi abolisco nella lettura. In questi sensi all'abolire manca quel tratto di diretta volontà con cui lo conosciamo solitamente, e si emancipa dal solito riferimento a regole, pratiche e istituzioni. Riprende il suo massimo respiro: torna un vasto annichilire, e ritrova quel genere di cui l'abolire che leggiamo sui giornali è solo una specie.
E poi usare una parola in maniera insolita colpisce sempre.
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Beatrice Lorenzin
La ministra spiega la genesi del nuovo simbolo di Civica Popolare
"Non è una Margherita, ma un fiore petaloso"