Monday, January 08, 2018

ANIMA



La parola del giorno è

Anima

[à-ni-ma]
SIGN Principio vitale degli esseri viventi; in senso religioso, entità immortale contrapposta al corpo, che nell'umano presiede all'intelletto, ai sentimenti e alla spiritualità; essenza; persona; parte interna
voce dotta recuperata dal latino [anima], affine al greco [ànemos] 'vento, soffio'.
Sì, questa è una parola gigantesca. Il novero dei suoi usi specifici è così vasto da essere disorientante - e davanti a parole del genere è importante cercare di comprenderne l'ossatura, le linee di forza che le reggono.
Il suo primo significato, da cui tutti gli altri sgorgano, è quello di principio vitale: etimologicamente, e secondo una suggestione antichissima, indoeuropea, questo principio è descritto come soffio, quel soffio, quel respiro che unisce i viventi. È un concetto davvero ingombrante. E gran parte del suo successo sta nella sua contrapposizione al fisico, al corpo - specie in riferimento all'essere umano, e in un'ottica religiosa. Diventa la parte più riposta della persona, la sua vera essenza, cifra e motore non caduco di intelletto, sentimento, spiritualità. Così, oltre che delle anime del Purgatorio, si parla figuratamente dell'anima di un racconto (anima principio, anima essenza, anima ispirazione), di un paesino di cento anime o delle anime buone dei soccorritori (anima persona, anima morale), perfino dell'anima della penna o della cravatta (anima parte interna, parte nascosta).
Un soffio, che ispira tutto ciò che c'è di invisibile di una persona e non solo. E una parola evocativa anche nel suono: pronunciandola, il flusso d'aria ininterrotto espira - lettera a lettera - dalla bocca, dal naso, dalla bocca, ancora dal naso e di nuovo dalla bocca. Anima.
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(G. Cavalcanti, Perch’i’ no spero di tornar giammai)

Tu senti, ballatetta, che la morte
mi stringe sì, che vita m’abbandona;
e senti come ’l cor si sbatte forte
per quel che ciascun spirito ragiona. […]

Deh, ballatetta mia, a la tu’ amistate
quest’anima che trema raccomando:
menala teco, nella sua pietate,
a quella bella donna a cu’ ti mando.

Torniamo, dopo la parentesi festiva, alla letteratura duecentesca: siamo ancora nel “dolce stil novo”, ma il tono è decisamente più drammatico.
Per Cavalcanti l’amore è una forza incontrastabile e minacciosa, sulla quale non si ha possibilità di controllo né di conoscenza. Da qui l’angoscia che pervade la “ballatetta” (piccola ballata): l’amore mette l’io di fronte alla sua impotenza, virtualmente alla sua morte. Sembra quasi di sentire l’eco di Pavese: “Ci si uccide perché un amore […] ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla.”
L’io dunque si frantuma, come una nave contro uno scoglio. Si scinde cioè in diverse parti: gli “spiriti” (ossia le voci interiori), l’anima e la stessa ballata (che è sempre un’emanazione del poeta).
Cavalcanti evidenzia così la profonda contraddittorietà dell’io, moltiplicando le entità che lo compongono. Ecco perché il cuore contemporaneamente ama e odia, teme e spera: perché “ciascun spirito” gli parla (“ragiona”) in modo diverso. Una spiegazione ingenua, certo; però vi ritroviamo in nuce quella frammentazione dell’io che tanto piacerà a Pirandello, e persino un pizzico delle intuizioni freudiane.
Non solo: qui l’esilio del poeta rende ancor più difficile la comunicazione con la donna amata. Eppure la poesia cerca nonostante tutto di penetrare l’incomprensibile, e di intrecciare una comunicazione. Da qui l’insistente invocazione alla “ballatetta” e l’affidamento alla sua “amistade” (benevolenza): essa è l’unico, esile veicolo con il quale l’anima può raggiungere l’amata.
Del resto capita anche a noi, talvolta, di scrivere un messaggio particolarmente importante. Allora, come Cavalcanti, vi riversiamo una parte della nostra anima, e cento volte l’accompagniamo mentalmente a destinazione.
Ecco, a me questo sembra un piccolo ma commovente atto di coraggio: affidare la propria anima, fremente e indifesa, alle mani di un altro. È un nulla, forse, ma è tutto ciò che possiamo dare; e la lanciamo così, nel vuoto, sperando che venga accolta. Chissà, forse perché l’anima può slanciarsi in avanti solo nella speranza che qualcuno, da qualche parte, la stia aspettando.
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Testardo

Daniele Silvestri



Io so' testardo c'ho la capoccia dura e per natura non abbasso mai lo sguardo
è un'esigenza perché c'ho 'na pazienza da leopardo e so' testardo e non mi ferma gnente vado sempre avanti fino al mio traguardo indifferente e non m'importa gnente se ritardo io so' de legno e sembro muto e sordo ma le tue parole, sta' tranquillo che me le ricordo e qualche volta me le segno io so' de coccio quello che dico faccio io so' uno che, comunque vada le promesse le mantiene che poi nemmeno me conviene molto perché so' un muro e pure se t'ascolto fondamentalmente so' sicuro che la tua vita è appesa a un filo e io c'ho le forbici però se ancora un po' mi piaci la colpa e dei tuoi baci che m'hanno preso l'anima de li mortacci tua Io so' De Chirico dico in senso simbolico c'ho un controllo diabolico quasi artistico del mio stato psicofisico e se hai capito, mo' traducilo e so' tenace perché alla gente piace ma è evidente che con un coltello mi puoi fa' cambia' opinione aho, so' tenace ma mica so' cojone io so' de marmo ma tu m'hai sbriciolato perché so' testardo fino al punto che so' sempre innamorato pure se tu m'hai già scordato - (e infatti l'hanno vista...) - m'hanno informato! però se ancora un po' mi piaci la colpa è dei tuoi baci che m'hanno preso l'anima 
de li mortacci tua




WIKIPEDIA

  "Tacci tua" e "'Cci tua", mentre "Alimortè" è una semplice esclamazione derivata dalla parolaccia principale: come se si dicesse "caspita", "accidenti" dove "li mortacci" non ci hanno più niente a che fare.
Un'altra forma derivata dalla principale è "Li mortanguerieri" con lo stesso valore spregiativo ma dove oggetto dell'insulto non sono i prossimi defunti ma i lontani progenitori che si suppone essere stati antichi guerrieri. In caso contrario, l'allocuzione "li mortacci stracci" sta ad identicare avi la cui professione era lo stracciarolo.
Quando invece si vuole limitare l'insulto nel tempo passato, ma non fino ad arrivare a lontani antenati, si usa la forma "'tacci tua e de tu' nonno". In particolare la locuzione "e de tu' nonno" viene usata per controbattere da chi ha ricevuto l'insulto e riversarlo su chi l'ha proferito. (Dice uno: «Li mortacci tua!» e l'altro replica: «...e de tu' nonno!»)
Un'ulteriore forma estesa dell'ingiuria precedente è "li mortacci tua e de tu' nonno in cariola"."li mortacci tua e de tu nonno 'n cariola co le zampe de fora" che deriva dalla necessità che si verificava in occasioni di epidemie di aggiungere nell'ala sistina dell'Arcispedale di Santo Spirito in Saxia altri letti al centro della corsia chiamate "cariole". La parolaccia quindi è rivolta all'avo morto in soprannumero. Ancora, nell'uso vernacolare trasteverino fu presente, sino agli anni cinquanta, "... e de tu' nonno in cariola intint'ar piscio", e cioè "intinto nella sua urina", a rimarcare ancor più severamente la vecchiaia degli antenati evocati, addirittura incontinenti.
L'espressione può essere enfatizzata, divenendo L'anima de li mortacci tua, L'anima de li mejo mortacci tua.

Nell'uso diffuso l'espressione sta prendendo anche un significato meno incisivo, col significato di mannaggia a te.
Va infine segnalata un'espressione del romanesco minore, delle periferie, certamente in uso nelle periferie dal II dopoguerra, intesa a sgombrare il campo d'uso dell'invettiva e dell'espressione esclamativa da ogni e qualsiasi offesa nei confronti sia degli antenati del locutore, sia degli antenati dell'interlocutore: "mortacci de Pippo" . In tal caso Pippo è indicazione di un "terzo" astratto e generalizzato. L'insulto, insomma, è rivolto a terzi non identificati né identificabili, non suscettivi di reagire (altrimenti manescamente) all'offesa. Sul perché l'altro generico o generalizzato sia denominato "Pippo" vi sono possibili, ma non verificabili, interpretazioni. Forma estesa dell'ingiuria precedente è "Li mortacci [sui e] de Pippo affumicato".

La "metafisica" de "li mortacci tua"

Questa "classica" parolaccia romana assume contrastanti significati a seconda del tono, delle sembianze facciali e delle posture corporali che ne accompagnano l'espressione: può infatti significare, se accompagnata da un viso che manifesta meraviglia, sentimenti positivi di ammirazione, sorpresa e compiacimento per un evento fortunato o straordinario («Li mortacci tua, ma quanto hai vinto?»); oppure, con un viso ilare, gioia ed affetto per un incontro inaspettato e gradito («Li mortacci tua, ma 'ndo se' stato finora?»); oppure ancora comunicare sentimenti sia negativi che neutri: con un viso dall'aspetto contrariato o sconsolato, con un tono della voce alterato o sommesso, può rivelare, nello stesso tempo, rabbia o desolazione («Li mortacci tua, ma ch'hai fatto?»).
La consistenza "materiale" della parolaccia, il contenuto stesso infamante sparisce, diviene "metafisico", di fronte agli stati d'animo con cui viene pronunciata, e solo questi sono veramente reali.
In tutti questi casi la parolaccia diviene ininfluente, non è offensiva ma è come un rafforzativo, l'equivalente di un punto esclamativo, alle parole che seguono all'invettiva: tant'è vero che può essere rivolta anche a sé stessi («Li mortacci mia, quant'ho magnato!»).
La stessa parolaccia può significare stati d'animo del tutto negativi, come rancore, odio o dolore, se accompagnata da un aspetto del viso adeguato ma in tutti i casi citati, la parolaccia non è rivolta tanto ad offendere gli antenati defunti del soggetto a cui è indirizzata - offesa di cui forse questi potrebbe anche non risentirsi - quanto usata come locuzione generica rivolta alla persona stessa: nel senso che può essere indirizzata anche verso chi, magari per la giovane età, non ha defunti prossimi di cui onorare la memoria.

La parolaccia nei sonetti del Belli

Un illustre precedente della parolaccia non poteva non trovarsi nel cantore della romanità plebea Giuseppe Gioachino Belli.
Un rancore frustrato e rassegnato esprime, ad esempio, l'espressione nel sonetto Li cancelletti, nel quale un popolano maledice bonariamente il Papa Re Leone XII, reo di aver proibito il consumo di alcolici all'interno dei locali:
(ROM) « Ne pô ppenzà de ppiú sto Santopadre,
pôzzi avé bbene li mortacci sui
e cquella santa freggna de su’ madre? »
(IT) « Non ha nient'altro a cui pensare questo Santo Padre,
possano averne bene li mortacci sui,
e quella santa fregna di sua madre? »
(Giuseppe Gioacchino Belli, sonetto n. 155, Li cancelletti, datato 2 ottobre 1831)
L'espressione può indicare anche diffidenza, ostilità, livore, risentimento come nel caso del sonetto n. 792, Er vecchio, in cui un frequentatore di teatro rivolge l'insulto alle forze dell'ordine, in questo caso ai Carabinieri, rei di voler cacciare i disturbatori dal teatro:
(ROM) « Ma mmo sti schertri e li mortacci loro
sce vorríano a l’usanza de l’ebbrea
ricuscicce la bbocca all’aco d’oro. »
(IT) « Ma adesso questi scheletri[12] e li mortacci loro
ci vorrebbero, secondo l'usanza delle donne ebree,
ricucire la bocca all’ago d’oro[13]. »
(Giuseppe Gioacchino Belli, sonetto n. 792, Er vecchio, datato 20 gennaio 1833)
Impazienza e fastidio esprime la stessa espressione nel sonetto 251, Er falegname cor regazzo, in cui un vecchio falegname redarguisce duramente un garzone che non riesce a seguire le sue istruzioni:
(ROM) « Famme la carità, ma cche tte fai!,
cosa te freghi, pe l’amor de Ddio!
Nu lo vedi che ddritto nun ce vai,
mannaggia li mortacci de tu’ zio? »
(IT) « Fammi il piacere, ma che stai facendo!,
cosa seghi, per l’amor di Dio!
Non lo vedi che dritto non ci riesci ad andare,
mannaggia a li mortacci di tuo zio? »
(Giuseppe Gioacchino Belli, sonetto n. 251, Er falegname cor regazzo, datato 21 dicembre 1831)
Dispetto, irritazione, stizza esprime nel sonetto n. 2052, L'incontro der ladro, in cui la voce narrante racconta l'incontro con un ladro, piccolo e basso, che però riesce a scappare:
(ROM) « "E allora tu nu lo pijjassi in petto?!"
"Che vvòi, mannaggia li mortacci sui!,
me se messe a scappà pp’er vicoletto". »
(IT) « "E allora tu non l'hai preso di petto?!"
"Che ci vuoi fare, mannaggia li mortacci sui!,
mi è scappato via per il vicoletto". »
(Giuseppe Gioacchino Belli, sonetto n. 2052, L’incontro der ladro, datato 9 dicembre 1844)

Varianti linguistiche

Varianti regionali italiane

L'espressione è diffusa anche in altre regioni:
  • In Puglia l'espressione analoga è: li murte tuue o "chi t'è mmurte" (molto simile al Campano), in Salento è li muèrti tua (con la possibile accezione "li muèrti de mammata/sirda/fraita/sorda" -madre/padre/fratello/sorella- o la variante "chi t'ha 'mmuertu" -anche questo con plurime variazioni a seconda della zona, con rafforzamenti quali "chi t'ha stramuertu", "li muerti toi squagghiati" o apparenti paradossi quali "chi t'ha 'vvivu", ove i "bersagli" della vittima sono i parenti ancora in vita). La frase in base al contesto e a ciò che vuole esprimere può variare e al posto di tuue si aggiunge d'mammat (in italiano: di tua madre), d'attand (di tuo padre), d'i studc (degli stupidi).
  •  
  • In Basilicata la più semplice tra le espressioni analoghe è "chi t'è murt". Così come nel resto d'Italia, anche nei dialetti lucani esistono molte varianti: il rafforzamento più diffuso è "chi t'è stramurt"; è comune variare l'oggetto con, ad esempio, "i murt de mamt/attant/sort/fratt/mglert/marett/ziant/cugnt/feglt" ("i morti di tua/o madre/padre/sorella/fratello/moglie/marito/zio o zia/figlio o figlia") o con "i murt de chi t'è murt" ("i morti dei tuoi morti", per riferirsi ai morti eventualmente sconosciuti all'interlocutore, ma cari ai suoi morti). In talune zone, il verbo essere è sostituito dal verbo avere ("chi t'ha murt", "chi t'ha stramurt", "i murt de chi t'ha murt"). Si menziona infine, in una sola variante, la forma più rara e scherzosa "chi t'è stramelamurt" (i migliori tra i tuoi morti).
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  • In Campania: chi t'è mmuort con la variante rafforzativa chi t'è stramuort. Variante bonarie e non offensiva sono chi t'è vvivo (chi ti è vivo) e chi t'è viecch (chi ti è vecchio). La chiamata dei morti è detta murtiata.
  • In Calabria: chi t'è mmuartu o anche chi t'è stramuartu
  • In Veneto: ti ta morti, oppure va remengo ti ta morti
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Varianti internazionali

  • Me cago en tus muertos oppure semplicemente tus muertos sarebbero i corrispondenti in spagnolo[14]
  • Futu-ți morții mă-tii! o la versione abbreviata Morții mă-tii! (letteralmente «Vorrei fottere li mortacci di tua madre») è il corrispondente in romeno [15]

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