Tuesday, November 13, 2018

BARDO

Il bardo, nelle filosofie orientali è un percorso che garantisce l'immortalità.
Ora, un po' per scherzo, e un po' no, il governo italiano, lo strano governo italiano, rischia di diventare da giallo/verde a grigio, come il cielo del suo futuro. Lo ha capito bene Berlusconi, che con il suo residuale istinto ha incominciato ad azzannare la preda ferita.
La parola "bardo" deriva direttamente dal termine protoceltico bardus e nella sua accezione occidentale significa alzare la voce. Il bardo però è anche un antico poeta celtico, nel 1500 era un musicista itinerante, il cantore dell'antichità.

In tal senso i due vicepremier Di Maio e soprattutto Salvini sono due moderni bardi alla ricerca dell'immortalità, ed ecco che abbiamo unito occidente con oriente.
Ma allora perché il cielo è grigio? Perché l'idea di mondo e di futuro della Lega è completamente diversa da quella del Movimento 5 Stelle. Orbene, non è ben chiara l'idea di futuro dei 5 Stelle, siamo ancora fermi alla "GaiaDark" di Casaleggio, tra futurismo e fantasy, tra crescita e decrescita felice, tra scie chimiche, cure omeopatiche e lobby gay.
Sintesi che hanno trovato nel contratto di governo, garantito da Giuseppe Conte, che mantiene una visione diametralmente opposta sui temi della giustizia, sulle grandi opere, sul modello sociale e di sviluppo, non c'è un tema comune, se non quelli che i 5 Stelle acquisiscono e subiscono dalla Lega, cioè qualcosa che nasca da un dibattito politico condiviso e che sia frutto di un progetto che attraversa la base delle singole organizzazioni politiche e coinvolga il Paese.
L'unica cosa che li tiene uniti è la costruzione quotidiana, dentro sistemi di storytelling molto semplificati, del nemico. Un giorno le autostrade, un giorno Junker e i burocrati di Bruxelles, un altro giorno la Francia, un altro giorno Saviano e poi Corona, ma alla fine i nemici sono ridicoli. Domenica, abbiamo assistito al ritorno di Gentiloni, un politico che ha contribuito con la sua attività di governo a disperdere metà del consenso elettorale del suo partito. Certo non da solo, ma con la complicità di Matteo Renzi.

Finché a opporsi a Di Maio e a Salvini ci saranno figure come Renzi o Gentiloni, è chiaro che la gente, l'elettorato, l'opinione pubblica, continuerà saldamente a scegliere la Lega e il Movimento 5 Stelle. È tempo per un'intera classe dirigente, al netto dei meriti e demeriti, di sparire.
Non dico il confino, riservato a leader politici di altre epoche, ma almeno un garbato oblio.
Sono proprio loro l'ancien règime, il più grande vantaggio competitivo del governo Salvini/Di Maio, perché a fare del male a questo governo e a delegittimarlo, a metterlo costantemente in difficoltà, ci pensano figure comiche e tragiche come Toninelli, che non ne azzecca una o Casalino, capo della comunicazione del Movimento 5 Stelle e portavoce di Conte.
Casalino è il classico personaggio ossessionato dal suo passato che ogni volta che tenta di rimediare a un danno riesce a trasformare la pezza peggio del buco e non bastano i tentativi di sembrare diversi ma solidali, che ogni tanto abbozza il ministro della Giustizia Bonafede, perché di fronte a domande come quelle di Lucia Annunziata (sempre domenica in TV), non c'è salvezza.
Il Movimento 5 Stelle però non sta crollando nei sondaggi per colpa di Casalino, ma perché sta facendo cose molto diverse da quelle che ha detto e sulle quali ha raccolto migliaia di voti e quando una forza politica arriva ad attaccare i giornalisti come hanno fatto i 5 Stelle nel caso dell'assoluzione della Raggi, significa che sta veramente con le spalle al muro, come ci ha insegnato nella storia Silvio Berlusconi.
Tutto sembra giocare a favore di Salvini, che non viene messo in difficoltà neanche dalla Isoardi, che non viene messo in difficoltà dalle contraddizioni del suo governo e che non viene messo in difficoltà neanche da Berlusconi, insomma nessuno sembra danneggiare Salvini, è il suo momento, il paese è ai suoi piedi, è l'uomo forte.
Ma non lo è per il racconto dei giornalisti, non lo è per la capacità di governo dei suoi amministratori, non lo è per la propaganda del suo partito, ma lo è soprattutto per quattro ragazzi che con lui qualche anno fa hanno deciso di interpretare la modernità nella comunicazione, cioè di disintermediare il rapporto con i media e andare direttamente sull'opinione pubblica attraverso i social media, principalmente Facebook e Instagram.
Attraverso strumentazioni tecniche, mitologica è la "bestia" la piattaforma di letture e rilancio delle info sul web, che mette in relazione il web con i social, ma soprattutto una strategia innovativa che Salvini ha costruito con il suo Social Media Manager, Andrea Zanelli, che in qualche anno è riuscito a portare un reach (numero di individui o account unici che vedono un certo contenuto) sopra ai quattro milioni al giorno. Se considerate che il presidente degli Stati Uniti è appena sopra ai due, capirete da soli la straordinaria azione politica e innovativa fatta da Salvini e dai suoi collaboratori.
Ma aggiungo ancora di più, questa domenica il TG1 delle 20 ha fatto poco più di 5 milioni di ascoltatori, il TG5 poco più di 4milioni, il TG3 poco meno di 2mlioni ed il TG di LA7 poco più di 1milione. Il numero di persone che Salvini ingaggia tutti i giorni se non è superiore poco ci manca ognuno di questi valori, quindi Salvini è diventato il media di se stesso.
Al di là dei contenuti, questo è un dato di fatto indiscutibile e finché non ci sarà qualcuno che analizzerà con cura questo aspetto, lo comprenderà, ne studierà le contromosse, gli urli e gli strilli dai balconi deserti non servono a nulla. Il contrappasso divertente non è che grazie alla rete Salvini si è mangiato Berlusconi, l'età il tempo sono per Berlusconi un attenuante. La cosa più incredibile è che Salvini si sta mangiando il Movimento 5 Stelle che nella rete è nato.
E quindi Matteo Salvini è il nuovo bardo, il cantore della modernità.


Friday, November 09, 2018

trombinoscopio

La parola del giorno è

Trombinoscopio

[trom-bi-no-scò-pio]
SIGN Raccolta con foto, nomi e presentazioni dei membri di un gruppo
dal francese [trombinoscope], probabilmente composto di [trombine] 'viso', e dal secondo elemento [-scope], che dal greco [skopêin] 'vedere' descrive strumenti d'osservazione.
Anticipo la malizia di chi leggendo si è domandato "E cos'è che osserva, il trombinoscopio?" o "Dove si mette?". Vediamolo.
Non si può dire che sia una parola entrata in italiano, che magari potremmo ritrovarci a breve su un dizionario; anzi ora come ora è un francesismo marcato. Però, non solo da parte italiana, le si muove intorno una certa curiosità.
Probabilmente il primo elemento che la compone, trombine, è un prestito proprio dall'italiano 'trombina' - che propriamente, come intendiamo, sarebbe 'piccola tromba', e che in un gergo figurato diventa il viso. Bel passaggio di sineddoche che della bocca fa tutto il viso, e bel passaggio di metafora (o metamorfosi?), che fa, di gola e bocca, canna sonante e svasatura di campana: nonostante il diminutivo non ne viene fuori un viso angelico, anzi è praticamente un grifo, un grugno che sa rombare come un ottone. Il secondo elemento, '-scopio', invece ci è familiare, ci parla di strumenti di osservazione, come il microscopio, il periscopio. Che il trombinoscopio sia uno strumento per osservare musi? Esattamente, e lo conosciamo benissimo.
Che sia all'inizio della pubblicazione aziendale con l'intero consiglio direttivo, o affisso in una bacheca scolastica con la primavera di nuoto, che sia su un pannello al congresso con la squadra di ricerca, o sia un social network intero (viene in mente qualche libro di facce?), il trombinoscopio è una raccolta con foto, nome e presentazione di ciascuno dei membri di un gruppo. In Francia se n'è parlato e se ne parla dalla seconda metà dell'Ottocento, quando la rivista satirica Le Trombinoscope raccolse questa parola già in circolo (dedicava ciascun numero a una personalità di rilievo), e rimasta poi nel nome di annuari politici. strumenti per osservare i musi di chi è in un gruppo, per vedere le facce, le facce voglio vedere, perbacco.
È una risorsa gagliarda: i trombinoscopi hanno sicuramente la loro importanza seria, ma spesso hanno una componente ridicola, se non scopertamente faceta, e chiamarli così li colloca nella serenità dell'ironia - dell'auto ironia, magari.
* * *


Ciurlare

[ciur-là-re (io ciùr-lo)]
SIGN Vacillare, tentennare; nell'espressione 'ciurlare nel manico', sottrarsi a un impegno con raggiri, rinvii, pretesti
etimo incerto; forse di origine espressiva.
Ci sono locuzioni di così grande successo da inglobare per sempre alcune delle parole che le compongono. È il caso del verbo ciurlare, che non esiste più al di fuori dell'espressione 'ciurlare nel manico'. Be', in realtà fuori da quell'espressione non è praticamente mai attestato, se si fa eccezione per un uso nella Canzona d'un Piagnone pel bruciamento delle vanità del 1498, di autore anonimo (Là si pappa lecca e ciurla).
Il suo significato di base è quello di tentennare, di di stare malfermo, e lo troviamo in derivati quale 'ciurlo', sia nel senso di ubriaco, matto, sia come passo di danza mosso su un sol piè. Il 'ciurlare nel manico' quindi ci racconta di uno strumento, di un utensile che avendo una parte metallica fissata male al manico, traballa e di fatto è inutilizzabile. Non si riesce a fare forza se la lama della vanga ciurla nel manico, ci scappa la testa del martello che ciurlava nel manico, e l'unica cosa che puoi tagliare col coltello che ciurla nel manico è il tuo dito.
Un attrezzo che ciurla nel manico non è rotto. Non è da buttare, da cambiare. Va sistemato, registrato, ne va fermato il gioco - peraltro un lavoro molto più snervante e noioso di una riparazione. Non è semplicemente inutilizzabile, è momentaneamente inutilizzabile per un motivo senz'altro minore, ma di fatto lo lasci dov'è e ne cerchi uno saldo, poi vedrai. Il ciurlare nel manico diventa il sottrarsi a un impegno, magari a una promessa, con un rinviuccio, con un piccolo sotterfugio, con un pretesto, tergiversando. Tentennando!
Il bagno lo lavo io perché tu ciurli nel manico e fra poco arrivano gli ospiti; il collega trova il suo equilibrio pigro ciurlando nel manico con grande finezza; e chiamato a rendere conto delle opinioni che ha espresso, il pavido ciurla nel manico.
Le parole che scaturiscono dal lavoro manuale magari non sono le più raffinate: questo 'ciurlare' non si sa bene da dove salti fuori. Se davvero è una voce onomatopeica, allora è ricca, rotante, ridicola. Di certo ha un'energia di metafora straordinaria.
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Sunday, November 04, 2018

DECODIFICARE

Giulietto Chiesa e il video fake su Pandora Tv: «Decodifico, non manipolo. E anche l’11 settembre...»

Giulietto Chiesa e le polemiche sull'intervista «modificata»

Giulietto Chiesa e il video fake su Pandora Tv: «Decodifico, non manipolo. E anche l’11 settembre...»
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Se una cosa del genere l’avessi fatta quando eri a «L’Unità» o a «La Stampa», dove hai lavorato a lungo, ti avrebbero licenziato.
«Ascoltami bene: nel 1998, dopo essere stato a Mosca otto anni per L’Unità, fui premiato come migliore corrispondente italiano. Quanto a La Stampa: vi rimasi finché un certo signore, di cui non ti faccio il nome, cercò di farmi scrivere quello che voleva lui. A quel punto, salutai e me ne andai direttamente in pensione. Sono un uomo libero, io».
(Riassunto delle ultime ore: Giulietto Chiesa, 78 anni, è accusato di aver manipolato e pubblicato sulla sua Pandora Tv un’intervista rilasciata da Jeroen Dijsselbloem a Cnbc, in cui le parole dell’ex presidente dell’Eurogruppo sono stravolte fino ad attribuirgli minacce all’Italia e suggerimenti su come metterla in ginocchio economicamente. L’operazione di taroccamento è stata scoperta dal sito Butac, specializzato in bufale).
«Ti proibisco di usare simili toni. Noi ci siamo limitati ad interpretare».
Tu sei un giornalista: dovresti attenerti ai fatti.
«Molti economisti usano le metafore per aiutare i lettori ad interpretare quello che dicono».
Avete manipolato un’intervista. Punto.
«L’abbiamo decodificata. È diverso».
Ora comunque sei al centro di brutti sospetti.
«Tipo?».
Il tuo comunismo sovranista sarebbe intrecciato al putinismo leghista e al populismo dei 5 stelle.
«Sciocchezze».
Il tuo video tarocco è stato pubblicato con entusiasmo dal profilo Facebook dei 5 Stelle Europa.
«Apprezzano l’informazione non omologata».
Cos’è, di preciso, questa tua Pandora Tv?
«È una emittente web che non segue i criteri di narrazione dell’informazione di potere. L’abbiamo fondata nel 2014, ma ora la srl di riferimento è in liquidazione».
Posso chiederti chi ci ha messo i soldi?
«Io ci ho messo 250 mila euro, buona parte dei miei risparmi. E altrettanti euro sono arrivati da donazioni varie».
Donazioni varie: sei un po’ vago.
«Sostenitori, ammiratori, amici».
Sei molto amico di Marcello Foa, il presidente della Rai.
«Sì, è vero. Abbiamo collaborato più volte. Ci stimiamo. Abbiamo lo stesso modo di intendere il giornalismo».
(Nel dicembre di quattro anni fa, Foa fu invitato come ospite d’onore ad un convegno organizzato da Pandora Tv, dal titolo: Global Warning. Sul sito web c’è un lungo filmato, con Foa che dice: «Fino a qualche tempo fa, sarebbe stato impensabile che io e Chiesa, uno di destra e uno di sinistra, potessimo andare d’accordo». Così d’accordo che, poche settimane fa, in occasione della prestigiosa nomina di Foa alla guida di viale Mazzini, Chiesa lo saluta in un affettuoso editoriale: «Vai nella fossa dei leoni e dei serpenti. È il luogo degli inganni e delle manipolazioni. Sarà un’impresa difficile bonificare quell’ambiente, caro Marcello»).
«Bonificare»: è un verbo terribile.
«Scusa: cos’altro dovrebbe fare, il mio amico? In quel luogo infetto sono stati tutti lottizzati, dal primo all’ultimo, per anni».
Ti segnalo che per decidere i nuovi direttori dei tigì, Di Maio e Salvini hanno litigato per giorni.
«No, davvero? Non so niente. Chi sono i nuovi direttori?».
Dai, Giulietto.
«Te lo giuro: non ne so niente. Mi trovo qui a Tver, in Russia, per un convegno sulle religioni. Sai, qui ho ancora un certo seguito».
(Come ha ricordato la storica Anna Zafesova a Rivista Studio, nella festa mobile moscovita degli anni Ottanta, dal salotto di Chiesa e della compagna di sempre Fiammetta Cucurnia, firma di Repubblica, passavano membri del partito e dissidenti, letterati e militari, burocrati e giornalisti. Chiesa — che la Tass, la temuta agenzia d’informazione sovietica, suggerì di espellere, trovando la fiera opposizione di Enrico Berlinguer — divenne addirittura amico personale di Michail Gorbaciov).
Sei stato un grande giornalista: poi cosa ti è successo?
«Non ti seguo».
Sei sempre convinto che l’attentato alle Torri Gemelle...
«Se lo fecero da soli gli americani! Certo. Ormai esistono prove schiaccianti. Ci fosse una giustizia internazionale, tutto il governo Usa dell’epoca, compresi i capi di Cia ed Fbi, dovrebbe finire sotto processo. Solo il povero presidente Bush fu tenuto all’oscuro di tutto».
Poi ti sei candidato alle elezioni insieme ad Antonio Ingroia con un partito che si chiamava La Mossa del Cavallo.
«Ehm... Successivamente, lo trasformammo in Lista del Popolo per la Costituzione. Comunque, sì, non andò benissimo: prendemmo lo 0,02%. Diciamo che fu pura testimonianza comunista».
Che strano: adesso ti piace questo governo.
«È il governo del popolo. Quindi, mi piace».
Ho letto che ti piace anche il premier Giuseppe Conte.
«Sai, quando è venuto qui, pur essendo completamente a digiuno di politica, ha fatto la sua figura. No, dico: ti pare poco incassare la fiducia del Cremlino?».

costituzione

MA DAVVERO GIURANO SULLA COSTITUZIONE?
ma guarda un po'...
quando è andato al governo
Silvio credeva di aver giurato sulla PROSTITUZIONE...


 

tottiilatria

Tottilatria
Ma - non solo nell'Urbe - la "Tottilatria" è lungi dall'essere una religione in declino.
Il Venerdì di Repubblica 21/09/2018
La Treccani accetta questo neologismo insieme con
AstroLuca furbetto del tornello salva-ricchi spornosexual
e sarrismo...
corona peracottaro by Ilary Blasi, non ancora pervenuto
ehehehe


Di Maio sta perdendo la FACCIA

Martina dimissionario




cenestesi

La parola del giorno è

Cenestesi

[ce-ne-stè-si]
SIGN Sensazione generale del corpo, di solito notata solo quando viene turbata
voce dotta, composta dal greco [koinós] 'comune' e [aìsthesis] 'sensazione'.
È una parola molto divertente. Basta iniziare a ragionarne intravedendone il significato e subito le appercezioni interne fioriscono - un po' come quando consideriamo la sensazione del nostro peso contro la sedia su cui siamo seduti, o della stoffa dei vestiti sulle spalle, che sono sempre lì e sempre escluse dalla nostra consapevolezza.
La cenestesi è una parola che ha vissuto un po' sottotraccia: la sua ricezione pare relativamente recente (novecentesca), e nonostante sui dizionari vengano segnalati puntualmente i suoi ambiti principali d'uso (medicina e filosofia) tante definizioni sembrano ispirate da vaghezza. Certo è un concetto più facile da intendere che da spiegare, ma ancora una volta possiamo contare sulla cavalleria etimologica: la cenestesi è letteralmente la sensazione comune del corpo. Non quella che percepiamo dal giornalismo degli organi di senso con cui diamo l'assalto alla realtà, ma quella interna, sottile e complessa, resa dalla rete dei propriocettori - indescrivibile da vista, udito, tatto. Può essere una sensazione di benessere (sentiamo tutto rilassato al proprio posto e il mondo è una favola) o di malessere (quando torniamo a casa e senza sintomi chiari sappiamo già che stiamo per ammalarci), ma è carsica, nascosta, non s'impone sulla nostra attenzione con dolore, vibrazioni , luci. Tant'è che spesso si nota solo nel suo turbamento in meglio o in peggio.
Fuori di filosofia e medicina non è un termine che si fa notare per la sua spendibilità pronta o per la sua utile versatilità. Rientra fra quelle parole che sono determinanti perché perimetrano un concetto. In questo caso, il concetto di una sensazione che, a differenza di tutte quante le altre, è letteralmente sempre lì. E a dispetto di quella parte di filosofia che ci ha visto una sensazione povera, per chi la sa ascoltare è la sensazione più eloquente della vita, il germe dell'autocoscienza.
(Sì, si usa anche in diritto, in particolare se n'è parlato riguardo alla 'cenestesi lavorativa', cioè la normale fatica da lavoro, che certi danni biologici possono aggravare. Non ho capito se è una trovata lessicale splendida o grottesca.)


Monday, October 22, 2018

META' COSCIA

Scandalizzato, Lavia rintraccia su Twitter l' autrice, Giovanna Vitale - donna, per giunta! - e la redarguisce con un tweet dei suoi: "Cara Giovanna, era proprio necessario scrivere di Maria Elena Boschi 'con stivali a metà coscia'? Mi meraviglio, da una brava giornalista di Repubblica". La brava giornalista Vitale chiarisce prontamente l'assoluta conformità del suo testo al codice etico di Lavia: "Non capisco cosa ci sia di male. È un dettaglio di cronaca, è legittimo che Meb li indossi (tra l'altro le stavano benissimo) e io che lo scriva per quel che è. Senza malizia alcuna".

Qualche tweet dopo, la Vitale torna sulla vexata quaestio per precisare vieppiù il suo alto pensiero: "Forse altri hanno usato quel termine con malizia, non io. La malizia è nell'occhio di chi legge, non di chi guarda e ne scrive". Tra l' altro gli stivali le stavano benissimo! Ma niente, Lavia non si lascia intenerire e la saluta malamente con un "Sono un lettore di Rep dal 1976 e la penso diversamente. 'A metà coscia' è da La Verità. Succede. Ciao". E così sono sistemati anche i colleghi de La Verità. Amen.

Scoperto quindi che il termine "coscia", se riferito alla Boschi, non può essere utilizzato nemmeno in senso squisitamente tecnico-sartoriale, ci chiediamo: nel caso di un gran colpo di fortuna per l'ex ministra, le si potrà dire "Che culo, Maria Elena"? Dovremmo forse far eliminare il seno e il coseno dai programmi di trigonometria di tutte le scuole di Laterina per non turbare l'illustre concittadina e il suo cavalier servente?

Per ora potremmo cominciare a eliminare il termine "coscia" da tutti i dizionari. Nel caso: come dovremmo allora indicare quella parte del corpo (femminile: riferito ad un uomo, "coscia" è un termine certamente ammesso) situata tra il ginocchio e l'anca? Forse la "metà coscia" potrà essere indicata soltanto con l'equivalente ma più sobrio "primo quarto di gamba"? Incuriositi, abbiamo deciso di controllare come il severo censore Lavia abbia risolto la spinosa questione su Democratica, certi che avremmo trovato un sito di informazione finalmente "coscia-free".

Una veloce ricerca per parole-chiave e orrore! Lo scurrile termine "coscia" ricorre in decine e decine di articoli. Lo stesso Lavia il 2 luglio 2016 si lancia un ardito 'scancosciato'. E, più grave di tutto: tra i collaboratori del sito di informazione di Lavia figura una certa Maria Coscia alla quale, crediamo, il vicedirettore chiederà di cambiare il cognome - per decenza - in un più sobrio e pudico Maria Metàgamba.


 Mario Natangelo per il “Fatto quotidiano”



Massimiliano Parente per “il Giornale

Abbiamo capito che nell' era del #metoo non si può più corteggiare una donna senza rischiare di essere accusati di molestie, ma adesso bisogna stare anche attenti a come si parla, e tanto più a cosa si scrive in una banale descrizione se si sta descrivendo una donna.

Come è successo alla giornalista Giovanna Vitale, la quale su Repubblica ha scritto che Maria Elena Boschi (nella foto) si è presentata alla Leopolda con degli «stivali a mezza coscia», precisando perfino che le stavano molto bene. E quindi? Che c' è di male?
maria elena boschi leopolda maria elena boschi leopolda
Tutto, e scoppia una polemica a sinistra sulle cosce della Boschi. Innescata dall' ex direttore di Europa Mario Lavia, che ha attaccato la giornalista chiedendo se era proprio necessario scrivere «a metà coscia», trovando l' espressione sessista. Ci sta, tanto tutto è sessista oggi. Figuriamoci se avesse scritto «scosciata».

Insomma, il nuovo puritanesimo femminista ha abolito pure le cosce. Tra l' altro, per la cronaca, gli stivali incriminati non erano neppure a metà coscia ma appena sotto il ginocchio, casomai la gonna era a metà coscia, ma poco cambia. In ogni caso la Vitale avrebbe dovuto dire che indossava stivali alti, senza nominare le cosce.
giovanni toti in tuta con berlusconi giovanni toti in tuta con berlusconi

Certo che di questo passo finiranno per abolire la femminilità stessa, perché se il parlare di cosce è sessista, tanto vale abolire le gonne, cosa le mostri a fare le gambe? A cosa serve? Tra l' altro da mettere subito all' indice film come Giovannona Coscialunga e canzoni sessiste che nel 1938 dicevano «saran belli gli occhi neri/ saran belli gli occhi blu/ ma le gambe, ma le gambe/ a me piacciono di più». No bello, ti devono piacere di più gli occhi, sennò sei sessista. Per farla breve le uniche cosce di cui sarà consentito conversare saranno quelle di pollo.

A questo punto da bandire qualsiasi complimento estetico: dire a una donna «hai un bellissimo décolleté» è sicuramente sessista, perché stai ponendo l' attenzione sulla scollatura, che c' è per lasciar vedere il seno, e se guardi il seno sei un sessista. Come d' altra parte definire un vestito «attillato» potrebbe essere sconveniente, che bisogno c' è di definirlo attillato? Stai forse intendendo che chi lo indossa voglia mostrare le forme, il corpo? Sessista!
matteo renzi come fonzie matteo renzi come fonzie

Meglio non nominare mai neppure se una indossa scarpe con tacco a spillo, è sessista, perché il tacco a spillo è sexy, per non correre rischi da oggi tutte in mocassini o scarpe da ginnastica, neppure scalze e smaltate di rosso, perché ci sono i feticisti dei piedi (non per altro anche la Boschi ha una pagina a lei dedicata su Wikifeet). Morale della favola: alle donne, per evitare il sessismo, non resta che vestirsi da uomini, e gli uomini eterosessuali è meglio diventino gay.
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Monday, May 21, 2018

come il cucco



La parola del giorno è

Cucco

[cùc-co]
SIGN Beniamino, favorito, in senso spregiativo; cuculo; babbeo
voce onomatopeica.
È vero: 'cucco' non è un termine su cui ci si interroga molto, ma è in buona parte imperscrutabile, e per un verso o per un altro ce lo abbiamo pronto sulla lingua. Ebbene, non è un termine solo: in questa forma, molto familiare, convergono parole diverse, e il fatto curioso è che in massima parte sono onomatopeiche.
Innanzitutto è un equivalente di 'cocco', non quello della noce ma il giovane beniamino, il prediletto, il favorito - il cocco della mamma, della maestra e via cliché dicendo. In questo caso l'onomatopea è davvero calzante, e si vota alla denigrazione evocando tanto la chioccia (il 'cucco' è anche l'uovo!) quanto i versi senza significato con cui intratteniamo i bambini. In secondo luogo 'cucco' è anche un nome con cui è noto il 'cuculo' (mica scherzi, trova omologhi anche in latino e greco). Qui l'onomatopea è facile: il cuculo fa cu-cu. E riallacciandoci giusto al cucco-volatile, per la scarsa stima popolare dell'intelligenza degli uccelli 'cucco' vale anche 'babbeo', specie nella locuzione 'vecchio cucco'.
E il 'vecchio come il cucco', nel senso di vecchissimo? Le ipotesi sono due: potrebbe riferirsi ancora al cuculo, poiché le tradizioni classiche credevano alcuni tipi di volatili di longevità millenaria; o potrebbe essere una storpiatura (analoga a 'bacucco' e 'imbacuccato') che rievoca il profeta biblico Abacuc - non il più vecchio che compare nella Bibbia ma sempre raffigurato come suggestivo vecchione barbuto e severo.
_________________________

(G. Basile, La Gatta cennerentola, in Lo cunto de li cunti, sesta novella della prima giornata)
[Lo re] fa jettare no banno, che tutte le femmene de la terra vengano a na festa […] E, venuto lo juorno destenato, […] provaje lo chianiello ad una ped una a tutte le commitate […].
Ma non tanto priesto [lo chianello] s’accostaje a lo pede de Zezolla, che se lanzaje da se stisso a lo pede de chella cuccopinto d’ammore, comme lo fierro corre a la calamita!

Una veste inusuale, per un contenuto notissimo: il re, convocate con un bando tutte le donne del regno, fa provare a ciascuna una scarpetta (chianello); e, non appena la avvicina alla sguattera Zezolla, la scarpetta vola da sé al suo piede, adattandovisi perfettamente. A quel punto il re incorona la fanciulla regina.
Ebbene sì, è proprio la fiaba di Cenerentola! In effetti questa è la sua prima attestazione scritta, all’interno del più importante libro di novelle del Seicento.
Per la verità, sembra che la primissima Cenerentola sia nata addirittura nell’antico Egitto; ma la sua consacrazione ufficiale avviene con Basile, in terra napoletana. Tanto che si è parlato di mettere una targhetta nel Palazzo Reale di Napoli, per ricordare il “vero” luogo dove la scarpetta fu perduta.
Una scarpetta non ancora di cristallo, però: quella è una trovata del francese Perrault, forse dovuta a un errore linguistico. Si ipotizza infatti che nella tradizione precedente la scarpetta fosse di pelliccia (vair in francese), poi confusa con il suo omofono verre, vetro.
Comunque, quanto a invenzioni linguistiche, anche Basile non scherza. Fa infatti un uso creativo e ruspante del già vivacissimo dialetto napoletano, innestandovi l’amore – tipicamente barocco – per la metafora. Da qui espressioni gustose come “cuccopinto”: letteralmente “uovo dipinto”, ossia qualcosa di grazioso e tenero; perfetto per il visino da bambola di Zezolla.
Va detto, però, che la Cenerentola di Basile non è affatto la fanciulla ingenua e innocente che c’immaginiamo. Non solo si procura con l’astuzia l’aiuto delle fate, ma soprattutto… uccide la sua prima matrigna! (Salvo poi ritrovarsene un’altra ancora peggiore).
I casi quindi sono due. Il suo aspetto da “cuccopinto” potrebbe essere il risultato dell’espiazione, che lavando la colpa dell’omicidio restituisce a Zezolla la bellezza (esteriore e interiore). Ma potrebbe anche essere l’astuta maschera di un’approfittatrice senza scrupoli: Basile questo non lo specifica.
Forse il povero re farebbe bene a guardarsi le spalle…
* * *

Friday, April 20, 2018

21 aprile

La parola del giorno è

Faloppa

[fa-lòp-pa]
SIGN Bozzolo di baco da seta che contiene una crisalide morta; millantatore, persona vana, bugiarda
dal latino medievale [faluppa] 'paglia, lolla di grano, immondizia', di origine incerta.
La storia di questa parola è antica, anche se prima della sua attestazione nel latino medievale (parliamo del Duecento, in Emilia) non si sa molto di certo. Comunque, dalle forme 'faluppa' o 'falopla' diventa l'italiano 'faloppa' nel XIV secolo. Ora, i primi significati latini erano eterogenei ma descrivevano tutti materiali di nessun valore: paglia, lolla (ossia l'involucro dei cereali, e il sinonimo 'loppa' viene proprio da qui), fino all'immondizia tout-court.
Nel passaggio alla nostra faloppa, però, pur mantenendo il senso essenziale l'immagine cambia, diventando molto specifica: il bozzolo del baco da seta che contiene una crisalide morta (morta di morte naturale, potremmo dire, perché la bella seta, per essere impiegata, richiede sempre l'uccisione delle crisalidi nel loro bozzolo finito). Questi bozzoli restano però incompiuti, flosci, inconsistenti, e macchiati internamente dalla putrefazione, dalla tabe - e insomma, servono a poco. Magari da fuori paiono sani, a posto come tutti gli altri; ma al tocco o al momento di scioglierli rivelano il loro triste difetto. Perciò l'uso metaforico della faloppa riferito a una persona non è incardinato sulla sua assenza di valore, ma sulla sua vanità, sul suo essere - figuratamente - bugiarda, menzognera, millantatrice. Uno slittamento interessante.
Possiamo parlare del faloppa che noleggia la Maserati per far le viste di avere grandi denari (si può usare anche al maschile, invariato); ci dileguiamo rapidi dalla festa formale affollata di faloppe; e quando si riesce a smascherare una faloppa è sempre un bel godere.
È una parola ricercata, che però (mi dicono) ancora ruggisce nel nord-est. Ed è una risorsa straordinaria: un termine che ci significa con un suono gonfio una vanità che par persona, avvilita da una morte interiore, da un'intima putrescenza. Niente male.
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Tautogramma

[tau-to-gràm-ma]
SIGN Frase o componimento composto di parole comincianti tutte con la stessa lettera
dal greco [tautó], crasi di [tò autó] ‘lo stesso’, e [grámma] ‘lettera’, perciò ‘lettera identica’.
La definizione da manuale, quella della Treccani, è quella di sopra: «frase o componimento composto di parole comincianti tutte con la stessa lettera». Certo, chiara; tuttavia, molto più interessante e, soprattutto, esemplificativa, è quella che dà Walter Lazzarin, giovane padovano autore di, in mezzo a tutto il resto, Ventuno vicende vagamente vergognose: «composizione costruita con componenti che cominciano, categoricamente, con caratteri coincidenti». Sì, è proprio un tautogramma che si racconta.
Un’allitterazione esasperata, insomma. Starete pensando: «mica è roba da tutti i giorni!», e io vi rispondo: mica avete torto! Se chiedete le indicazioni a qualcuno, difficilmente vi risponderà con un tautogramma (ve lo immaginate? «Va’, veloce, verso via Venti»), a meno che non siate in una fiaba e il vostro interlocutore sia un folletto cantilenante. Perché, allora, il tautogramma? Facile: perché a volte ci si vuole divertire, e il tautogramma è proprio un gioco.
Diffuso nel Medioevo, questo passatempo è stato l’esercizietto prediletto da tanti autori (il più conosciuto, forse, è la Pugna Porcorum, «Battaglia dei porci», composto di parole inizianti tutte, ma proprio tutte, con la lettera «P». Il Monaco domenicano Johannes Leo Placentius (vero nome del tautogrammatico P. Porcius) aprì così, nel 1530, il testo: Plaudite, porcelli, porcorum pigra propago!, «Gioite, porcelli: tramando dei porci le gesta indolenti». I più coraggiosi vadano a leggere tutti i 250 versi – ne vale la pena; i meno audaci, invece, possono dedicarsi a tautogrammi in italiano, come quello di Luigi Groto, poeta e drammaturgo italiano del XVI secolo, dedicato a una certa Deidamia – ed essendo Deidamia il nome, non poteva che essere un tautogramma con la «D»: «Donna da Dio discesa, don divino, / Deidamia, donde duol dolce deriva, / Debboti donna dir, debbo dir diva, / Dotta, discreta, degna di domino?» Le altre tre strofe son facilmente reperibili in rete, e altrettanto facilmente godibili.
Più vicino a noi temporalmente, anche Umberto Eco ha scritto un tautogramma abbastanza conosciuto che inizia così: «Povero papà (Peppe), palesemente provato penuria, prende prestito polveroso pezzo pino poi, perfettamente preparatolo, pressatolo, pialla pialla, progetta, prefabbricane pagliaccetto». Il titolo è Povero Pinocchio, e come è chiaro racconta la storia del «pagliaccetto» usando solo parole inizianti per «P». Un capolavoro.
Lo so, lo so, questo gioiellino, giocosa gemma, giada gioiosa della letteratura, è decisamente poco adatto alle chiacchiere da bar e ai discorsetti sull’autobus. Non dimentichiamoci, però, che anche noi, chiacchieratori al bar e discorseggiatori sull’autobus, pur non essendo autori medievali che si dedicano a esercizi di stile, possiamo comunque giocare con le parole e darci ai tautogrammi – o meglio, a «composizioni costruite con componenti che cominciano, categoricamente, con caratteri coincidenti».
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Dilucolo

[di-lù-co-lo]
SIGN Alba, prima luce del mattino; all'alba
voce dotta recuperata dal latino [diluculum], da [dilucère] 'essere luminoso, essere chiaro'.
Vengono inventate un mucchio di parole nuove per descrivere un mucchio di cose e concetti straordinari, ma di nuove parole per descrivere l'alba no. Ci sono solo le solite. Però cercando bene si possono riscoprire delle parole desuete - ed è un po' come averne di nuove.
Tutto nel suono di questa parola (che si trova anche nella variante 'diluculo') ci richiama qualcosa di piccino: e anche se nel diluculum latino non troviamo propriamente un diminutivo, esso significa i crepuscoli di alba e tramonto, luoghi in cui il dilucere, proprio perché minuto, proprio perché non si afferma senza rivali nel giorno ma si confronta con l'oscurità, acquista un'evidenza stagliata. In italiano si è però riferito solo al crepuscolo del mattino. I pensieri non sono mai così chiari come quando si esce di casa al dilucolo (o si esce di casa dilucolo, è anche avverbio); nel dilucolo chi ha fatto la notte a ballare torna a casa coi pescatori; e ripercorrendo i nostri ricordi riconosciamo il dilucolo di un sentimento.
Poi certo, se si vuole essere sicuri d'essere intesi e si vuole avere la parvenza di uno slancio di ricercatezza (per cui escludiamo l'opzione piana e netta di 'alba') si può parlare di albore. Ma è una parola la cui poesia è l'ultima fetta di torta rimasta sbriciolata nel vassoio - troppi albori intesi come inizi, perfino quel meraviglioso sospeso '-ore' finisce che sa di poco. E l'aurora ha un che di affettato, epico. Il dilucolo, invece, sa di modesto, di piccolo, di importante.
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