Tuesday, June 30, 2020

OCLOCRAZIA

Oclocrazia

o-clo-cra-zì-a
Significato Regime in cui le masse prevalgono facendo valere le proprie istanze, mosse da passione viscerale, anche cercando di prevaricare la legge
Etimologia dal greco okhlokratía ‘potere della folla’, composto di ókhlos ‘folla’ e -kratía ‘potere’.

Il termine è usato per la prima volta in greco dallo greco Polibio, vissuto nel II secolo a.C., negli anni in cui Roma conquistò la Grecia. Nelle sue Storie, fra l'altro, sull', un ciclo di forme di governo che finirebbe per ripetersi in un susseguirsi di degenerazioni e  — la monarchia degenera in tirannide, che è rovesciata dall'aristocrazia, che degenera in oligarchia, che è rovesciata dalla , che degenera in oclocrazia, su cui si restaura una monarchia. Saremmo quindi davanti a una degenerazione della democrazia.
Beninteso: è una degenerazione della democrazia per come era intesa dai nostri nonni di classica, cioè un governo quasi diretto, in cui il potere è sì nelle mani del popolo, ma di un popolo-minoranza da cui erano escluse le donne, così come gli stranieri e gli schiavi. Quella forma di governo non è la democrazia che intendiamo noi. E già questo rilievo fa scricchiolare un'attualizzazione semplice dell'oclocrazia.
Inoltre, il recupero di questo concetto in italiano avviene nel Rinascimento; e va considerato che da allora fino a pochi decenni fa il concetto di un possibile 'governo del popolo', oclocratico ma anche democratico, era come temibile e . E oggi?
monarchia e tirannide, aristocrazia e oligarchia, sono termini dai contorni netti, il termine 'oclocrazia' risulta difficile da mettere a fuoco, e specie da dalla democrazia. Però le parole dotte e ricercate devono riuscire a dire qualcosa di preciso e importante, devono portare dei significati tagliati come gemme, altrimenti sono fumo negli occhi.
L'oclocrazia, allo stato attuale, vuole avere un significato che però è tutt'altro che limpido, per lo scarto con le cornici e contesti in cui è stata generata, presa in prestito e sviluppata. È una parola che, a confronto delle altre che identificano altre organizzazioni della sfera politica, non è maturata. Figlia di un susseguirsi di concezioni elitiste, vuole essere qualcosa di diverso dalla democrazia quando sostanzialmente non lo è. 




[ar-raf-fà-re (io ar-ràf-fo)]
SIGN Afferrare con violenza; impadronirsi
dall'ipotetica voce longobarda [hraffōn] 'afferrare'
Qui si annusa un'origine longobarda anche prima di consultare i dizionari: tanta è la sua forza, violenta e aspra già nel suono, eppure così perfettamente adattata alla nostra lingua, che non ci stupisce sia uno dei prestiti germanici innestati su quel latino che si stava trasformando in altro, portato da quei nostri nonni che superarono l'Isonzo al fianco di re Alboino.
Il verbo longobardo ricostruito 'hraffon' aveva il significato di afferrare con violenza. Ora, non che l'afferrare latino fosse più rassicurante, è letteralmente un 'prendere il ferro', mettere mano alla spada, con quel gesto repentino che promette poco di buono, ma l'arraffare, con la schietta brutalità delle parole del suo genere, ha volato lontano dalle strettezze del gesto.
Infatti l'arraffare è un gesto che comporta già da sé una dimensione psicologica. Mentre l'afferrare può essere del tutto neutro, l'arraffare adombra una certa smania, un'avidità rapinosa, una netta foga: magari potrò dire in senso positivo che con balzo felino ho arraffato il cappello che il vento aveva strappato a qualcuno per restituirglielo con galanteria. Ma tanto, tanto più probabilmente lo userò avvicinandolo allo scippo, alla rapina, al furto: parlerò dell'amico che ha arraffato le tartine col caviale mentre stavano ancora allestendo il buffet, di come la signora arraffi come bottino prezioso il libro che avevamo abbandonato di proposito al tavolo del bar per disfarcene senza buttarlo, della parabola politica del gruppo che giunto al vertice arraffa quel che può — e si fa sgamare subito.

 
[ma-è-stro]
SIGN Persona abile e competente; insegnante. In musica: con il medesimo significato, riferito a campi e discipline diverse; direttore. Vento che spira da nord-ovest (maestrale)
dal latino [magister], derivato da [magis], ‘più’, col significato di ‘superiore’, contrapposto a [minister], ‘servitore’.
Con questo termine si può intendere il ‘maestro di scuola’ (chi ricorda il maestro Manzi?), il ‘vento di Maestro’, il ‘mastro’ artigiano, l’artista, e tanto altro. Secondo alcuni studi, perfino Servio Tullio, il sesto re di Roma, sarebbe stato un magister populi, identificabile con un personaggio denominato in etrusco macstrna, nome che esprime il latino magister, come la carica etrusca macstrev.
In tutti i casi, il significato comune si riferisce a colui che comanda, a chi sa o a chi sa fare più degli altri.

Monday, June 29, 2020

SCAZZO

RAFFAELE MORELLI:
"se una donna esce di casa e gli uomini non le mettono gli occhi addosso, deve preoccuparsi” 
"Puoi fare l’avvocato e il magistrato e ottenere tutto il successo che vuoi, ma il femminile in una donna è la base su cui avviene il processo. Il femminile è il luogo che trasmette il desiderio, se le donne non si sentono a proprio agio con il proprio vestito tornano a casa a cambiarsi. Noi uomini siamo più unilaterali, la donna invece è la regina della forma, la donna suscita il desidero e guai se non fosse così”. Lo psichiatra ha quindi esposto le proprie teoria sulla femminilità, ribadendo di fatto quanto già detto. "In una donna - ha spiegato - il femminile è la radice. È presente alle basi dell’essere già agli albori, è un dato ontologico, le bambine giocano con le bambole fin dagli albori”.

Quest'ultima frase ha scatenato l'ira della Murgia: "I maschietti non giocano con le bambole? Perché non gliele diamo. Se gliele diamo magari ci giocano”. Pronta la risposta di Morelli: "Ascolta, i maschi non giocano anche se gliele diamo". Da qui è nato un botta e risposta piuttosto acceso. Da una parte la scrittice che ha chiesto a Morelli di darle del lei "perché non sono una bambina", dall'altra Morelli che ha accusato la Murgia di porgli "domande stupide".

La discussione non poteva finire nel peggiore dei modi. Di fronte all'ennesima spiegazione dello psichiatra su cosa sia la femminilità, i due sono tornati a litigare fino a quando Morelli ha detto: "Sto parlando, stai zitta, altrimenti me ne vado". Chiara la replica della scrittrice: "Se ne vada. Non sta facendo un comizio io le faccio delle domande”. Telefono buttato giù e diretta finita.


Michela Murgia per “la Stampa”



Ci sono giorni epifanici in cui sembra che tutti i fenomeni di una stessa natura si siano dati appuntamento per verificarsi in modo ravvicinato con l' intento preciso di essere visti e capiti insieme. È un meccanismo apparentemente casuale che però produce qualcosa di irreversibile: fino al giorno prima potevi non vedere quello che avevi sotto gli occhi, ma dopo non si può più fare finta di niente. Ieri era proprio uno di quei giorni di confine. In sequenza pubblica sono infatti accadute tre cose che a loro modo si somigliano tutte. La prima è che Guè Pequeno del gruppo rap dei Club Dogo ha attaccato il collega Ghali con critiche riferite all' uso del rosa nel suo abbigliamento.

Secondo il cantante, non consono per un rapper, né per un maschio eterosessuale: «Un artista che va in giro vestito da confetto può andare bene per una sfilata, ma non ha grande credibilità di strada. Io non sono razzista né omofobo, ma vedere un rapper che va in giro vestito da donna con la borsetta mi fa ridere, che poi almeno fosse gay».



La seconda cosa che si è imposta alla discussione pubblica è l' intervista che proprio chi scrive ha cercato di fare ai microfoni di Radio Capital allo psicanalista Raffaele Morelli, affinché spiegasse la frase «se una donna esce di casa e gli uomini non le mettono gli occhi addosso deve preoccuparsi». Nel corso dell'intervista Morelli non solo non ha spiegato la matrice scientifica della sua frase, posto ne esista una, ma ha peggiorato la situazione affermando che "per natura" le bambine giocano con le bambole, mentre i maschietti non lo fanno neanche se gliele danno.


MICHELA MURGIA MICHELA MURGIA

Contraddetto su questo, il professore prima ha gridato "Stai zitta!" e poi ha interrotto l'intervista. La terza cosa a verificarsi nella stessa giornata è stata la più imbarazzante di tutte, perché si è svolta nella cornice istituzionale della Camera dei Deputati. Durante la seduta Vittorio Sgarbi, redarguito per i toni violenti del suo intervento prima dalla collega Bertolozzi e poi dalla vicepresidente Carfagna, le ha apostrofate entrambe con insulti tali da costringere i commessi della Camera a portarlo via di peso a corpo morto mentre ancora inveiva.



Lo schema conduttore di questi tre eventi apparentemente slegati tra loro è sempre lo stesso: c' è un uomo che impersona il modello dominante del suo ambiente - il rapper virile, lo psichiatra nazional-popolare e l'opinionista enfant terrible - e che pretende di dettare quale sia la norma di comportamento a cui gli altri e le altre del suo raggio d'azione devono attenersi. Se non succede, quell'uomo sanziona con violenza chiunque provi a mettere in discussione la sua regola, e che si tratti di uomini o donne non fa alcuna differenza.


sgarbi sgarbi
 

Così accade che nello stesso giorno si debba sentire che nel mondo artistico un maschio non può vestirsi di rosa (perché è femminile, quindi poco serio), nel mondo domestico una bambina non possa giocare con qualcosa di diverso dalle bambole (perché sarebbe maschile, quindi poco consono) e nel mondo politico una donna non possa imporre la disciplina a un uomo, nemmeno se è il suo ruolo istituzionale.



Due indizi fanno una prova, diceva Conan Doyle, figuriamoci tre; ma le prove della violenza del sessismo sono ormai così tante che non vederle è diventata una scelta. È un bene che queste cose stiano accadendo insieme nel mese di giugno, quello in cui in tutta Italia si celebra il Pride, perché mostrano quanto sia ancora necessario ripetere che la normalità umana non esiste e che il rispetto delle differenze di cui tutti siamo portatori è l' unica risposta ai dislivelli di potere e agli stereotipi di genere che ancora condizionano la nostra libertà.
sgarbi sgarbi



Il popolo colorato che sfilerà sulle strade d' Italia in questo fine settimana sembrerà forse una "volgare forma di trasgressione" ad Alessandro Di Battista, ma ce ne faremo una ragione. Sappiamo già cosa dire agli uomini privilegiati che vengono a spiegarci come dobbiamo gestire la nostra esclusione.

VINCENT:
Io adoro questo talento letterario. quando leggo quello che scrive (nei libri) la limpidezza della sua scrittura mi lascia estasiato.
Dopo avr detto questo, come posso dirle che alcune volte le persone fanno ragionamenti esatti ma partendo da presupposti errati poi va a finire che hanno torto e nessuno glielo può spiegare?

Analizzando le parole di Morelli E SOLO QUELLE, non ci sono dubbi che la Murgia abbia torto. Se invece vogliamo prendere in considerazione anche tutte le altre recriminazioni di questa illustre scrittrice, allora diciamo che avevano ragione gli antichi Greci che avevano posto sull'Olimpo dodici divinità che rappresentavano e riflettevano i comportamenti umani. Così Giunone e Vesta la casalinga e il focolare, Venere, la bellezza, Artemide la caccia, Minerva la sapienza possono rappresentare tutti gli umani. E se tu vuoi uscire di casa come Venere darai ragione  a Morelli, se uscirai vergine e cacciatrice come Diana darai ragione a coloro che la pensano al femminile. Michela Murgia quando esce di casa uscirà come Minerva intoccabile nella sua corazza e così sarete tutti contenti.
Io da parte mia sono dalla parte di George Harrison, il famoso Beatles che scrisse

SOMETHING

Il testo e la traduzione di Something
Something in the way she moves –
Qualcosa nel suo modo di muoversi
Attracts me like no other lover –
mi attrae come nessuna altra amante
Something in the way she woos me –
qualcosa nel modo in cui mi corteggia

I don’t want to leave her now – 
Non voglio lasciarla ora
You know I believe her now –

 tu sai che credo in lei ora
Somewhere in her smile she knows –
Da qualche parte nel suo sorriso lei sa
That I don’t need no other lover –
che io non ho bisogno di nessuna altra amante
Something in her style that shows me –
qualcosa nel suo stile che mi rivela

Don’t want to leave her now – 
Che non voglio lasciarla ora
You know I believe her now –

 tu sai che credo in lei ora
Something in the way she knows – 
C’è qualcosa che lei sa
And all I have to do is think of her –
che tutto ciò che devo fare è pensare a lei
Something in the things she shows me –
c’è qualcosa nelle cose che mi mostra

Don’t want to leave her now – 
Che non voglio lasciarla ora
You know I believe her now – 

tu sai che credo in lei ora

e se per caso vi andasse di ascoltarla
su Youtube la trovate qui:

  https://youtu.be/UelDrZ1aFeY


P.S.
Due indizi fanno una prova (e se ricordo bene erano tre) non lo diceva Conan Doyle ma Poirot.
  

Sunday, June 21, 2020

PERDìO NON E' UNA BESTEMMIA, PERDIO!

TRECCANI:

perdìo (meno com. pér Dio) interiez. – Esclamazione imprecativa che esprime disappunto, risentimento, insofferenza o sorpresa, oppure serve a rafforzare un’asserzione, una negazione, una minaccia: smettila una buona volta, perdio!; ti avevo detto di non seccarmi, perdio!; gliela farò pagare, perdio! Talvolta sostantivata (invar. o pl. -i), con il sign. di imprecazione, bestemmia: ogni tanto gli scappa qualche perdio; Bixio schizzò fuoco dagli occhi e schiacciò un gran perdio (G. Bandi); nella stizza, gli scivolan giù i perdii come chicchi di corona infilati (Fucini). Può essere usata anche come invocazione: Perdio, questo la mente Talor vi mova (Petrarca), ma in tali casi, per evitare ambiguità, si preferisce la grafia per Dio o si ricorre a espressioni quali per l’amor di Dio, in nome di Dio e sim. ◆ In aggiunta alle alterazioni eufemistiche qui registrate (perdiana, perdinci, ecc.), è da menzionare anche la forma region. (tosc., ecc.) perdìa, usata soprattutto come espressione asseverativa e rafforzativa: dovrà vedersela con me, perdia!

 
La parola del giorno è
[que-ri-mò-nia]
SIGN Lamentela insistente, lagnanza
voce dotta recuperata dal latino [querimonia], derivato di [queri] 'lamentarsi'.

 CRISTOFORO COLOMBO:
"Brutti stronzi,
io manco ce volevo venì..."

SOL FA


Solfeggio

Le parole della musica
sol-fég-gio
Significato Disciplina per imparare a leggere la musica
Etimologia dalle sillabe della solmisazione Sol-Fa.
Il solfeggio non è solo uno studio per specialisti, perché nel resto del mondo occidentale è studiato a e praticato nelle chiese, almeno a un livello di base. Eppure è una trovata tutta italiana.
Oggi si il solfeggio cantato da quello parlato. Quest’ultimo può risultare molto noioso proprio perché privo di musicale. Ma non fu sempre così.
Il termine nacque dall’unione del nome delle syllabae Sol e Fa della solmisazione, un complesso sistema di lettura dei suoni basato su sole sei note, anziché sette del sistema , la cui paternità è tradizionalmente attribuita al monaco Guido d’Arezzo.
Queste antiche scale si chiamano esacordi e sono di tre tipi: esacordo duro (con inizio dalla nota Sol):



In ogni tipo di esacordo la successione degli intervalli tra le note è costante, e per questo motivo i tre esempi audio sembrano uguali.
Per facilitare la memorizzazione delle sillabe agli allievi, il maestro le indicava sulla propria mano; il metodo prese il nome di ‘mano guidoniana’.


La difficoltà della solmisazione, anche per un musicista moderno, consiste nel fatto che i sei suoni, qualunque sia il loro inizio, si chiamino sempre: ‘Ut, Re, Mi, Fa, Sol, La’, (Ut=antico nome del Do) desunti dalle sillabe iniziali dei versi di un famoso inno in Canto Gregoriano a S. Giovanni Battista, la cui festività ricorre il 24 giugno.
La notazione precedente alla solmisazione era alfabetica, mantenuta fino ai giorni nostri nel mondo anglosassone (A=La; B=Si; C=Do etc.). Le lettere si chiamavano litterae o claves. La G (Sol), la C (Do) e la F (Fa) corrispondevano alle litterae iniziali degli esacordi, e in un lento processo calligrafico si trasformarono nelle tre chiavi (claves, appunto) ancora oggi in uso: la chiave di violino, o di Sol, la chiave di Do e la chiave di basso, o di Fa.
Con il passare dei secoli, il ‘solfizare’ del Rinascimento, ossia la lettura cantata tramite la solmisazione, nel Seicento si estese per sineddoche a indicare ogni esercizio vocale. I maestri di canto dell’epoca erano musicisti e scrivevano estemporaneamente per i loro allievi composizioni polifoniche senza testo, di solito a due voci, che venivano stampate raramente, perché erano composte sulla ‘cartella’, una tavoletta di pietra, legno o gesso, su cui si potevano appuntare e poi cancellare gli esercizi musicali. Un po’ come a scuola: quante spiegazioni ed esercizi alla lavagna, ma nessuno li stampa…
Lo studio del solfeggio di solito non piaceva agli allievi. Pier Francesco Tosi esortò perciò i giovani musicisti a imparare a "solfeggiar la scaletta", ma raccomandò ai maestri che i solfeggi fossero ‘naturali’ e ‘gustosi’, perché lo studente si applicasse a «studiarli con piacere, e ad impararli senza noia» (Opinioni de’ cantori antichi e moderni, 1723).
Il metodo pedagogico italiano fu ampiamente diffuso ed emulato nel XVIII secolo. I francesi si interessarono ai metodi di insegnamento italiani e produssero numerose pubblicazioni; la prima fu Solfèges d'Italie avec la basse chiffrée (1772) con esempi di Scarlatti, Porpora e altri. Nel 1827 uscirono anche i famosi Gorgheggi e solfeggi di Rossini.
Perciò il solfeggio non è sempre la solita solfa ma, nonostante la difficoltà iniziale, potrà condurre a leggere e a comprendere splendide pagine musicali, permettendo di individuarne la divisione ritmica e la struttura melodica. Insomma, anche in questo caso, per aspera ad astra!

Monday, June 15, 2020

ASSIOMA

Assioma

as-siò-ma

Significato Principio assunto come vero, senza bisogno di dimostrazione

Etimologia dal greco axíoma 'dignità', da áxios 'degno'.

Da un lato è una parola che mette in soggezione, dall'altro viene usata con in contesti inattesi. Ebbene, l'assioma nasconde un concetto che ci è molto familiare, e che ci può aiutare a considerarlo in maniera più amichevole e profondo — e chiederemo una mano a Galileo. Andiamo con ordine.

Abbiamo cognizione che il termine 'assioma' sia un termine scientifico. Lo associamo alla matematica, magari alla logica — anche se in effetti è un termine proprio dell', cioè quella della filosofia che si delle condizioni per la costruzione del pensiero scientifico, della sua struttura e delle sue metodologie. Ma allora com'è che 'assioma' si trova negli dei giornali e nei discorsi dei politici, che di rado brillano per cognizioni epistemologiche?

L'assioma è ciò che è assunto come vero: è ciò che, per la sua evidenza, non richiede dimostrazioni, ed è anche il presupposto del quadro che se ne può dedurre.

Qualche esempio? Gli assiomi del matematico Giuseppe Peano sui numeri naturali (non in maniera formale, 0 [zero] è un numero naturale, ogni numero naturale ha un numero naturale successore, numeri diversi hanno successori diversi, etc.). In geometria si parla più volentieri di 'postulati' ( qualcuno ricorda il quinto postulato di Euclide, da un punto esterno a una retta passa una e una sola retta a essa parallela): 'assioma' e 'postulato' sono termini usati spesso come sinonimi, ma chi li vuole dà all'assioma un respiro più generale, e al postulato (letteralmente 'ciò che è richiesto') uno più specifico e funzionale al caso in esame. Concludiamo dicendo che, come spesso si sintetizza, gli assiomi di un sistema devono essere non contraddittorî, non devono derivare gli uni dagli altri e devono essere in numero finito.

Ora, l'assioma nel parlare comune è colato in maniera curiosa, prendendo profili . Molte volte resta in maniera generica una verità condivisa, un dato di fatto, una credenza comune, ma con connotati dei più diversi e sorprendenti. Diventa simpaticamente un proverbio, un motto ispiratore rappresentativo, diventa un obiettivo, una finalità, una visione, come anche una regola d'oro, una parola d'ordine, un tratto caratteristico imprescindibile, fino al di esser preso per ipotesi. , è una parola molto usata, con un che è improprio se la misuriamo col significato che l'assioma ha in epistemologia. E però...

La prima attestazione che i dizionari riportano di questa parola è di Galileo, nel famoso Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. La cosa curiosa è che Galileo, in quest'opera fondamentale (per la scienza e per l'italiano) la alterna con quello che, al contrario di noi, percepisce come un suo sinonimo: .

Così scrive: "bisognerebbe rifiutare molte dignità . La prima delle quali è, che ogni effetto depende da qualche causa"; mentre in altri passaggi afferma: "bisognerebbe in filosofia rimuover molti assiomi comunemente ricevuti da tutti i filosofi".

L'assioma, come la dignità, è un valore, anzi il valore. Il valore reggente, sintetico e indiscusso. E lo è sia in un sistema scientifico, sia in un meno rigoroso sistema di pensiero, sia in un sistema morale. Perciò nell'uso profano — che è sbavato, improprio, ma spesso capace di cogliere  — sull'assioma convergono tante sfumature diverse. Si può parlare dell'assioma di uno stile culinario (tutto chilometro zero e di stagione), dell'assioma della nonna (si apparecchia anche per mangiare una noce), come anche dell'assioma dell'azienda, dello sportivo, delle vacanze, della manovra economica e della commedia romantica. Ecco l'assioma: un indiscutibile presupposto che racchiude già il suo finale.

[ci-nì-gia]

SIGN Cenere calda, con ancora qualche favilla di fuoco; brace minuta per gli scaldini

dal latino [cinis] 'cenere', attraverso l'ipotetica voce del latino parlato [cinisia].

Non è più una presenza così vicina e quotidiana, quella della cenere calda, leggerissima, secca, e non del tutto spenta, che può ancora sprizzare qualche favilla. Ha smesso di esserlo insieme al fuoco di legna. Ma questo particolare elemento della realtà, anche se più distante, resta ben presente nel nostro immaginario, e sa comunicare in maniera incisiva.

Nella sua umiltà ha una storia, nelle sue varianti, decisamente nazionale: la troviamo usata da Benvenuto Cellini, quando spiega come è che si fa sciogliere e aderire si applica la lega nera di niello nelle incisioni per creare il contrasto di un contorno nero su argento, fino a Pasolini in Una vita violenta, in cui il lancio della cinigia è l'ultima estrema resistenza domestica a dei poliziotti. Passando per Montale, che ne  Il canneto rispunta i suoi cimelli rappresenta il farsi e il disfarsi delle nuvole evocando Un albero di nuvole sull'acqua/ cresce, poi crolla come di cinigia.

Noi, nel nostro piccolo, possiamo considerare come dopo l'incendio, della macchia non resti che una cinigia volatile e fumante; ricordiamo come il nonno frugava nella cinigia per tirare fuori i cartocci delle patate cotte; e come è più facile riaccendere un fuoco sulla cinigia del precedente.

Friday, June 12, 2020

CORIMBO

 DIPENDE DA DOVE SEI QUANDO LO SCRIVI:
se sei in Italia, basta una esse...

Errata Corrige:
Ada Alighi Aldo Vincent in realtà si scrive davvero con una sola esse perché è un nome depositato da un marchio come nome di uno specifico prodotto tedesco. Tanti però lo scrivono pensando all’inglese, che non è
 


Il corimbo è un'infiorescenza a grappolo. Dall'asse ciascun peduncolo che porta in cima un fiore si separa a un'altezza diversa, ma i peduncoli a mano a mano che si sale si accorciano, cosicché i fiori finiscono per trovarsi tutti alla stessa altezza. Ne esistono varianti diverse, ma l'ordine risultante è sempre una cima di fiori a grappolo — che l'etimologia stessa ci tratteggia.

Fiorisce in larghi corimbi il sambuco, la primula raccoglie i suoi fiori in corimbi, sono disposti in corimbi gli stupendi fiori di ciliegio, così come quelli più modesti dell'edera.


Tuesday, June 09, 2020

MIGNOTTE E MERETRICI

Meretricio

La strana coppia
me-re-trì-cio
Significato Prostituzione; relativo alle prostitute
Etimologia voce dotta presa in prestito dal latino meretrìcium, neutro sostantivato dell’aggettivo meretrìcius, derivato di mèretrix 'prostituta', che è da merère 'meritare, guadagnare'.
È davvero una parola , meretricio. Anzitutto, è sia sostantivo (l’attività delle meretrici) sia aggettivo (‘da meretrice’, relativo alle meretrici), anche se in quest’ultimo senso è ormai rarissimo – difficile incontrare esempi di “amori”, “allettamenti” o “atti meretrici” nella letteratura dell’ultimo secolo. Tutto al contrario in inglese, dove meretricious è solo aggettivo e gode – ancorché parola ricercata, riservata alla lingua scritta – di salute abbastanza buona: non solo persone e atteggiamenti ma anche argomentazioni, e persino città possono essere definiti meretricious (e non si tratta di film sulla prostituzione né di città in cui i !).
Inoltre, se su un dizionario cerchiamo dei sinonimi di prostituta, insieme a meretrice ne troviamo letteralmente decine di altri – dal zoccola all’intellettuale , dal crasso battona al poetico lucciola –, quando invece prostituzione non ha altri sinonimi che meretricio. è anche per questo – oltre che, beninteso, in ragione della sua – che il termine continua ad essere impiegato in buro-legalese, dove le prostitute sono “soggetti dediti al meretricio”. Ma c’è di più.
In latino, il nome meretricium e l’aggettivo meretricius derivano da meretrix, a sua volta formato da merere (‘guadagnare’, ‘incassare’ ma anche meritare, che ne deriva direttamente) e -trix (femminile di -tor). Quindi la meretrix è ‘colei che guadagna’, come imperator e imperatrix sono coloro che imperano e accusator e accusatrix coloro che accusano. E il maschile, meretor? Eccoci al punto: esisteva solo in , per analogia . La società dava per scontato che un uomo libero percepisse un reddito; ma per una , l’unico modo era vendere il proprio corpo. Perciò ‘colei che guadagna’ non poteva che significare ‘colei che si prostituisce’.
Ma meretricio e prostituzione sono perfettamente sinonimi? Nell’uso odierno senz’altro, ma nel 1830 Niccolò Tommaseo la pensava diversamente, giacché nel suo dizionario dei sinonimi si legge: “La meretrice guadagna del corpo suo, meretur; la prostituta per guadagno o per libidine, si mette in mostra, e provoca a sozzure: prostat: è più comune, più sfacciata”. La era dunque etimologica: merere è guadagnare, pro-stare invece è essere esposti, messi ‘in vetrina’ (da cui anche ). Nel meretricio, secondo Tommaseo, è essenziale la volontà di guadagno da parte della donna; non sempre così nella prostituzione, perché una donna può essere ‘esposta’ da altri, che ne sfruttano l’attività, e perché a suo avviso la prostituta, a differenza della meretrice, può concedersi anche solo “per libidine”.
Per libidine? Impossibile comprendere cosa c’entri la libidine con la prostituzione se non entrando nell’ dello pregiudizio maschile, in cui puttana, oltre che ‘prostituta’, vale anche “donna che ha relazioni sessuali frequenti e promiscue” (definizione del Grande Dizionario Italiano dell'Uso di De Mauro) – mentre puttano, inutile dirlo, in questo senso esiste quanto meretor.
E di pregiudizio in pregiudizio, nessuna sorpresa se l’inglese meretricious ha allargato il suo campo al di là della sfera sessuale, indicando tutto ciò – non solo persone e comportamenti ma anche oggetti, concetti e luoghi – che sia vistosamente attraente ma falso, ingannevole, . Questo, infatti, è il cliché sulle meretrici, che si fabbrica così: si eccettuano le etere, le cortigiane (cui si tributa il rispetto dovuto a chi si è conquistato una posizione di intrinsichezza coi potenti), e si riversa il proprio sulla ‘bassa manovalanza’, precisamente perché essa si conforma a quanto le viene richiesto: essere, appunto, vistosa, attraente e falsa.