Friday, April 20, 2018

21 aprile

La parola del giorno è

Faloppa

[fa-lòp-pa]
SIGN Bozzolo di baco da seta che contiene una crisalide morta; millantatore, persona vana, bugiarda
dal latino medievale [faluppa] 'paglia, lolla di grano, immondizia', di origine incerta.
La storia di questa parola è antica, anche se prima della sua attestazione nel latino medievale (parliamo del Duecento, in Emilia) non si sa molto di certo. Comunque, dalle forme 'faluppa' o 'falopla' diventa l'italiano 'faloppa' nel XIV secolo. Ora, i primi significati latini erano eterogenei ma descrivevano tutti materiali di nessun valore: paglia, lolla (ossia l'involucro dei cereali, e il sinonimo 'loppa' viene proprio da qui), fino all'immondizia tout-court.
Nel passaggio alla nostra faloppa, però, pur mantenendo il senso essenziale l'immagine cambia, diventando molto specifica: il bozzolo del baco da seta che contiene una crisalide morta (morta di morte naturale, potremmo dire, perché la bella seta, per essere impiegata, richiede sempre l'uccisione delle crisalidi nel loro bozzolo finito). Questi bozzoli restano però incompiuti, flosci, inconsistenti, e macchiati internamente dalla putrefazione, dalla tabe - e insomma, servono a poco. Magari da fuori paiono sani, a posto come tutti gli altri; ma al tocco o al momento di scioglierli rivelano il loro triste difetto. Perciò l'uso metaforico della faloppa riferito a una persona non è incardinato sulla sua assenza di valore, ma sulla sua vanità, sul suo essere - figuratamente - bugiarda, menzognera, millantatrice. Uno slittamento interessante.
Possiamo parlare del faloppa che noleggia la Maserati per far le viste di avere grandi denari (si può usare anche al maschile, invariato); ci dileguiamo rapidi dalla festa formale affollata di faloppe; e quando si riesce a smascherare una faloppa è sempre un bel godere.
È una parola ricercata, che però (mi dicono) ancora ruggisce nel nord-est. Ed è una risorsa straordinaria: un termine che ci significa con un suono gonfio una vanità che par persona, avvilita da una morte interiore, da un'intima putrescenza. Niente male.
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Tautogramma

[tau-to-gràm-ma]
SIGN Frase o componimento composto di parole comincianti tutte con la stessa lettera
dal greco [tautó], crasi di [tò autó] ‘lo stesso’, e [grámma] ‘lettera’, perciò ‘lettera identica’.
La definizione da manuale, quella della Treccani, è quella di sopra: «frase o componimento composto di parole comincianti tutte con la stessa lettera». Certo, chiara; tuttavia, molto più interessante e, soprattutto, esemplificativa, è quella che dà Walter Lazzarin, giovane padovano autore di, in mezzo a tutto il resto, Ventuno vicende vagamente vergognose: «composizione costruita con componenti che cominciano, categoricamente, con caratteri coincidenti». Sì, è proprio un tautogramma che si racconta.
Un’allitterazione esasperata, insomma. Starete pensando: «mica è roba da tutti i giorni!», e io vi rispondo: mica avete torto! Se chiedete le indicazioni a qualcuno, difficilmente vi risponderà con un tautogramma (ve lo immaginate? «Va’, veloce, verso via Venti»), a meno che non siate in una fiaba e il vostro interlocutore sia un folletto cantilenante. Perché, allora, il tautogramma? Facile: perché a volte ci si vuole divertire, e il tautogramma è proprio un gioco.
Diffuso nel Medioevo, questo passatempo è stato l’esercizietto prediletto da tanti autori (il più conosciuto, forse, è la Pugna Porcorum, «Battaglia dei porci», composto di parole inizianti tutte, ma proprio tutte, con la lettera «P». Il Monaco domenicano Johannes Leo Placentius (vero nome del tautogrammatico P. Porcius) aprì così, nel 1530, il testo: Plaudite, porcelli, porcorum pigra propago!, «Gioite, porcelli: tramando dei porci le gesta indolenti». I più coraggiosi vadano a leggere tutti i 250 versi – ne vale la pena; i meno audaci, invece, possono dedicarsi a tautogrammi in italiano, come quello di Luigi Groto, poeta e drammaturgo italiano del XVI secolo, dedicato a una certa Deidamia – ed essendo Deidamia il nome, non poteva che essere un tautogramma con la «D»: «Donna da Dio discesa, don divino, / Deidamia, donde duol dolce deriva, / Debboti donna dir, debbo dir diva, / Dotta, discreta, degna di domino?» Le altre tre strofe son facilmente reperibili in rete, e altrettanto facilmente godibili.
Più vicino a noi temporalmente, anche Umberto Eco ha scritto un tautogramma abbastanza conosciuto che inizia così: «Povero papà (Peppe), palesemente provato penuria, prende prestito polveroso pezzo pino poi, perfettamente preparatolo, pressatolo, pialla pialla, progetta, prefabbricane pagliaccetto». Il titolo è Povero Pinocchio, e come è chiaro racconta la storia del «pagliaccetto» usando solo parole inizianti per «P». Un capolavoro.
Lo so, lo so, questo gioiellino, giocosa gemma, giada gioiosa della letteratura, è decisamente poco adatto alle chiacchiere da bar e ai discorsetti sull’autobus. Non dimentichiamoci, però, che anche noi, chiacchieratori al bar e discorseggiatori sull’autobus, pur non essendo autori medievali che si dedicano a esercizi di stile, possiamo comunque giocare con le parole e darci ai tautogrammi – o meglio, a «composizioni costruite con componenti che cominciano, categoricamente, con caratteri coincidenti».
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Dilucolo

[di-lù-co-lo]
SIGN Alba, prima luce del mattino; all'alba
voce dotta recuperata dal latino [diluculum], da [dilucère] 'essere luminoso, essere chiaro'.
Vengono inventate un mucchio di parole nuove per descrivere un mucchio di cose e concetti straordinari, ma di nuove parole per descrivere l'alba no. Ci sono solo le solite. Però cercando bene si possono riscoprire delle parole desuete - ed è un po' come averne di nuove.
Tutto nel suono di questa parola (che si trova anche nella variante 'diluculo') ci richiama qualcosa di piccino: e anche se nel diluculum latino non troviamo propriamente un diminutivo, esso significa i crepuscoli di alba e tramonto, luoghi in cui il dilucere, proprio perché minuto, proprio perché non si afferma senza rivali nel giorno ma si confronta con l'oscurità, acquista un'evidenza stagliata. In italiano si è però riferito solo al crepuscolo del mattino. I pensieri non sono mai così chiari come quando si esce di casa al dilucolo (o si esce di casa dilucolo, è anche avverbio); nel dilucolo chi ha fatto la notte a ballare torna a casa coi pescatori; e ripercorrendo i nostri ricordi riconosciamo il dilucolo di un sentimento.
Poi certo, se si vuole essere sicuri d'essere intesi e si vuole avere la parvenza di uno slancio di ricercatezza (per cui escludiamo l'opzione piana e netta di 'alba') si può parlare di albore. Ma è una parola la cui poesia è l'ultima fetta di torta rimasta sbriciolata nel vassoio - troppi albori intesi come inizi, perfino quel meraviglioso sospeso '-ore' finisce che sa di poco. E l'aurora ha un che di affettato, epico. Il dilucolo, invece, sa di modesto, di piccolo, di importante.
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Monday, April 16, 2018

ssssst


...si stese spossato sui ciotoli levigati che se ne stavano bianchi sulla riva del mare, e con la testa appoggiata al vecchio tronco ormai  sbiancato dalla salsedine, si lascio’ cullare un poco dallo sciabordio  della battigia e  si addormento’.
 Sogno’ di essere un gatto che se ne stava arrotolato sulla sedia  polverosa nella soffitta della casa di sua madre e il gatto, anche lui,  sognava.
 Sognava di essere un uomo che stanco,  si era addormentato in riva al mare mentre aspettava l’arrivo della nave.
E la nave arrivo’.
Ne discese una donna che portava con se’ la gabbietta di vimini con il suo gatto che dormiva e sognava di essere un cane che abbaiava felice all’arrivo del suo padrone. 
Il padrone del cane apri’ la porta’, abbraccio’ la moglie e scosto’ il gatto dalla sedia.
Il gatto si sveglio’  e distrusse il sogno con la donna che  scendeva dalla nave e cosi’ anche l’uomo addormentato sulla spiaggia si sveglio’di soprassalto:
“Ti ho spaventato?” Le disse con la sua vocina delicata.
“Affatto. Ti aspettavo. Cos’e’ quello?”
 “Ah questo? E’ Muzzettino, il mio gatto. Ho deciso di lasciare tutto per venire con la nave su quest’isola a vivere con te, ma non ho saputo rinunciare al gatto”
 “Ma dorme sempre?”
 “Di giorno. Poi la notte va in giro.”
 Lui le prese la gabbia con il gatto, l’alzo’ per guardare meglio quel  rotolo di pelo bianco e nero, e il gatto continuava a ronfare, beato, sognando  di essere un uomo che dormiva su una spiaggia che aspettava la sua bella  che portava un gatto che sognava di essere un cane che abbaiava felice al suo padrone che tornava dal suo amore, che aveva un gatto…

 Ssssssssssssss

16 aprile 2018

La parola del giorno è

Spanare

[spa-nà-re (io spà-no)]
SIGN Rovinare la filettatura di una vite, un dado e simili
composto parasintetico di [pane], altro nome del filetto della vite, (probabilmente dal latino [panus] 'filo avvolto sul rocchetto', di origine greca), con [s-] privativa.
È impressionante come quella dei filetti degli elementi metallici sia una folla silenziosa e onnipresente. Intorno a noi, in ogni momento, abbiamo decine, centinaia di queste spire che si attorcigliano intorno a pezzi di metallo (e non solo), e che accoppiate e strette dentro spire negative tengono insieme i nostri mobili, le nostre macchine - praticamente tutto. Chissà come gongolerebbe Archita, pitagorico tarantino che è di solito indicato come inventore della vite.
Ora, parallelo al nome di 'filetto' - pare un piccolo filo avvolto su un gambo o su una superficie liscia - troviamo il sinonimo 'pane'. La sua immagine latina è la medesima: il gomitolo, o il filo avvolto sul rocchetto (da cui anche il 'dipanare'). È stupendo come i nomi delle prototecnologie trovino queste domestiche rispondenze, nevvero? Parlano sempre di casa.
Ad ogni modo, spanare (o spanarsi, come intransitivo pronominale) significa giusto guastare il filetto di una vite, di un dado o di un altro elemento filettato, cosicché diventa irrimediabilmente inservibile - non penetra né tiene. L'amico erculeo, quando sente che la vite stenta a entrare, mette più forza nel girare il cacciavite e la spana; il dado di metallo cattivo si spana rapidamente; il torchio di legno duro, fatto a regola d'arte, funziona da cent'anni e non ha mai accennato a spanarsi.
Ovviamente un fenomeno quotidiano come lo spanare ha dato frutti figurati: di quelli volgari non serve parlare. Invece giova parlare di come significhi un obnubilamento, o un'incapacità di capire: anche la mente, anche il pensiero può guastarsi, può non penetrare e non tenere. Il vecchio collega aveva una testa che era un brillante, ma se l'è spanata col bere; le intelligenze sciocche spanano senza cogliere quel che viene loro detto; smettiamo di guardare la serie perché alla settima stagione la trama si è spanata.
Nota finale: 'spanare' può anche significare privare una pianta del pane di terra che resta attaccato alle radici. Ma è un'altra storia, e parla di quell'altro pane.
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Accludere

[ac-clù-de-re (io ac-clù-do)]
SIGN Mettere, chiudere nella stessa busta o plico
voce dotta recuperata dal latino tardo [accludere], derivato di [claudere] 'chiudere', col prefisso [ad-] 'a, verso'.
Questa parola graziosa può rappresentare una risorsa di finezza quotidiana.
L'immagine è delle più delicate: sinteticamente un 'chiudere a', ossia un gesto in cui il chiudere viene partecipato da un'aggiunta, che entra nella busta o nel plico prima che vengano sigillati e inviati. Accludo un francobollo perché tu mi possa rispondere subito; mi scordo di accludere la ricevuta e quindi devo squarciare la busta e trovarne un'altra; ho prontamente buttato le istruzioni accluse e ora devo frugare nella nettezza; nel pacco di pomodori secchi che riceviamo c'è accluso un biglietto di ringraziamento così squisito e scritto su una così bella carta che lo conserviamo in vista.
Curiosamente si tratta di una voce dotta - cioè tecnicamente di una voce deliberatamente ripresa in un certo momento dal latino, e non giunta a noi dopo secoli di naturale uso continuato - che risale soltanto agli inizi del Settecento. Inoltre è simpatico notare che mentre di solito i verbi in cui troviamo un -cludere sono piuttosto importanti, perfino gravi (includere, escludere, concludere, che verboni!), l'accludere ci si presenta più leggero, epistolare, morbidamente burocratico. Soprattutto, è una splendida alternativa all' egemonia dell'allegare. Quando sono in viaggio, ai messaggi accludo sempre qualche bella foto; nella mail che ti mando trovi acclusi i suggerimenti che mi avevi chiesto qualche tempo fa.
C'è un che di più curato, nell'accludere: non stringe, non attacca, non annoda, ma sigilla insieme - liberi in un solo involucro.
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Thursday, April 12, 2018

celeuma

La parola del giorno è

Celeuma

[ce-lèu-ma]
SIGN Voce o cantilena che dà la cadenza di voga ai rematori
dal greco [kéleusma] canto dei rematori guidato dal celeuste.
Come qualcuno ricorderà, questa qui è la ricercata scarturigine del ben più noto temine 'ciurma'. Ma anche il celeuma merita un'osservazione dedicata, per la singolarità del suo significato (a me di sinonimi non ne sono sovvenuti).
Ci parla della navigazione del mondo antico, e in particolare si tratta della voce mandata dal capo dei rematori, il celeuste, per scandirne il ritmo di vogata - ma anche della cantilena con cui gli stessi rematori si coordinavano. Questa faccenda del coordinamento delle vogate era ed è essenziale per qualunque natante si sposti a forza di remi: una vogata fuori posto e i remi s'incrociano, s'intoppano, e non si vincono regate né si spostano grandi navi se ciascuno rema quando vuole. Il celeuma è la risposta più immediata e agile a questa necessità, delicata e nerboruta.
Non è un semplice canto di lavoro per darsi ritmo e fugare la noia, perché porta la cifra irriducibile dell'ordine, del comando (in greco keleúo è proprio 'io comando'): l'armonia ripetitiva del celeuma ha un che di coatto, e se vogliamo anche di alienante. E poiché non siamo tutti prestanti canottieri e pochi di noi lavorano su triremi e galere, forse possiamo apprezzare meglio gli usi figurati che il celeuma schiude. Il celeuma del dj irreggimenta i movimenti della folla in modo magico; i celeumi dei fischi, degli scatti del macchinario cadenzano i gesti dell'operaio; il celeuma del mantra esclude il pensiero; e in lunghe ore di cammino muto il bastone solo suona, a terra, con le battute di un celeuma.
Insomma, ancora una volta siamo davanti a una parola poco nota che ci racconta un elemento noto e frequente della realtà, richiamando una voce suggestiva dalle profondità della storia.
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Cursorio

[cur-sò-rio]
SIGN Rapido, frettoloso, che si fa di corsa; in zoologia, atto alla corsa
dal tardo latino [cursorius], derivato di [currere] 'correre'.
La formazione classica di questa parola ci inganna: infatti pare un normale prodotto della diretta digestione del latino in italiano, in particolare dell'aggettivo tardo cursorius - in pratica un fratello di 'cursore', tutto regolare. Invece la faccenda è un po' più complessa: iniziamo dicendo che, secondo certi dizionari, il termine 'cursorio' è attestato in italiano solo nel 1983. Come è possibile?
Probabilmente tale affermazione è da circostanziare. In effetti pare che solo fra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80 l'aggettivo 'cursorio' abbia acquisito in italiano i significati di rapido, frettoloso. Manco a dirlo, si dice cursorio ciò che è fatto di corsa. E si può subodorare che sull'affermazione di questi significati abbia pesato il cursory inglese, che li ha fin dal Seicento - mutuati dal francese medio cursoire, che a sua volta pesca nel cursorius latino. Ma già nei primi decenni del Novecento 'cursorio' è stato usato in italiano in ambito zoologico, per indicare quegli apparati che rendono un animale atto alla corsa. Per esempio ci sono zampe di tipo cursorio e zampe di tipo ambulatorio. Insomma, il quadro etimologico è composito.
Ad ogni modo, il cursorio-rapido è una risorsa versatile: ha un tono ricercato ma col riferimento alla corsa comunica un'immagine schietta, diretta - quasi elementare - che la rende più concreta del rapido, dello svelto, senza tirare in ballo la fretta come il frettoloso. Prima di gettarci nel vivo delle lezioni facciamo un'introduzione cursoria per rinfrescare qualche concetto di base; da una lettura cursoria del libro capiamo che è interessante ma non ci serve - o peggio che ci serve ma non è interessante; e il cuoco si stizzisce davanti alle mangiate cursorie di chi si vuol saziare senza sapere nulla del piatto.
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