Tuesday, April 10, 2018

epanalessi

La parola del giorno è

Epanalessi

[e-pa-na-lès-si]
SIGN Figura retorica che consiste nel ripetere due volte un’espressione all’inizio, al centro o alla fine di una frase
dal greco [epanàlepsis] ‘ripetizione’, sostantivo astratto dal tema di [epanalambàno] ‘io ripeto’.
Dai, dai, venite! Oggi voglio raccontarvi un’altra di quelle (tante) figure retoriche che si basano sul semplice e comune meccanismo della ripetizione. Nel caso dell’epanalessi, poi, si tratta di un tipo specifico di ripetizione: viene duplicata un’espressione all’inizio della frase (secondo lo schema /XX…/, in cui ‘X’ è l’espressione utilizzata), al centro della frase (schema /…XX…/) o alla fine della frase (schema /…XX/).
Lo so, lo so, non si capisce niente con questi schemi astratti. Tiriamo tutti fuori la nostra fedele copia della Divina Commedia e facciamoci guidare da Dante nel Purgatorio, XXX canto per essere precisi. La scena è quella del paradiso terrestre: dopo l’addio a Virgilio, Dante incontra finalmente la sua Beatrice, e lei attirando la sua attenzione gli dice, al v. 73 «Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice!», ‘Guarda qui bene, sono proprio io, Beatrice!’ Le considerazioni da fare su questo verso sono diverse: salta ovviamente all’occhio (o meglio, all’orecchio) l’allitterazione della lettera ‘b’, e con più attenzione si nota l’anadiplosi (ripetizione delle stesse parole alla fine di una frase o un verso e all’inizio della frase o del verso successivi); ora, però, ci interessa un’altra cosa, e cioè l’epanalessi in «ben son, ben son». Riprendendo quegli schemi antipatici di prima, questo è /XX…/.
Specularmente, l’epanalessi può interessare anche la fine di una frase o di un verso. È il caso di questi splendidi versi de La pioggia nel pineto di Gabriele d’Annunzio: «[…] ma la figlia / del limo lontana, / la rana, / canta nell’ombra più fonda, / chi sa dove, chi sa dove!» In questo caso, ovviamente, lo schema è /…XX/, dal momento che la ripetizione interessa la chiusura della frase.
Manca solo lo schema /…XX…/, ovverosia quello in cui la ripetizione si pone al centro della frase; e come esempio sfodero il verso finale de La chimera della raccolta Canti orfici, opera dell’autore toscano Dino Campana: «E ancora ti chiamo ti chiamo chimera».
Carica espressiva, grandiosità della frase, espansione dei costrutti: questi sono solitamente gli obiettivi verso cui tende questa particolare ripetizione, ma rispecchiano quelli che sono gli obiettivi di un po’ tutte le figure di ripetizione; quando usiamo un timbro nello stesso punto per due volte, l’immagine risulta più nitida rispetto a come sarebbe stata con una sola pressione, e la stessa cosa vale per le parole, che rimangono inevitabilmente impresse meglio quando ripetute e, di conseguenza, rafforzate.
Ricapitolando: l’epanalessi è il raddoppiamento di parole all’inizio, al centro o alla fine di una frase. Potrebbe apparire non facilmente spendibile nei discorsi di tutti i giorni, ma si tratta, come tutte le figure di ripetizione, di uno strumento espressivo potente che aspetta solo di essere sfruttato, e in quanto tale merita di essere conosciuta.
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Incubare

[in-cu-bà-re (io in-cù-bo)]
SIGN Tenere in incubazione, sottoporre a incubazione; covare
dal latino [incubare] 'covare, giacere sopra', composto di [in-] 'dentro' e [cubare] 'covare'.
Io incùbo o, alla latina, io ìncubo. Se qualcuno già se lo domanda, sì, c'è un nesso che collega le macchine incubatrici che accolgono i nati prematuri, o il tempo d'incubazione di una malattia, con l'incubo notturno; e il verbo 'incubare' ce lo spiega.
'Incubare' in latino aveva un mucchio di significati, che scaturivano tutti da un'immagine semplice ed eloquente: il giacere sopra - un giacere tutt'altro che molle, anzi parecchio intento, significato in modo penetrante da un letterale 'covare dentro' (gagliardissimo). Ora, per le antiche superstizioni l'incubo era un demone. Poteva anche essere il demoniaco custode di un tesoro (che covava), ma soprattutto era il demone maschile, collega speculare del succubo, che nottetempo si univa carnalmente alle donne addormentate (giacendo con loro, stando sopra) o che più genericamente opprimeva, schiacciava i dormienti. Da questa malefica oppressione scaturisce il nostro incubo, il sogno intenso e terrificante. Curioso come invece il succubo abbia preso tutt'altre vie.
Osservando i significati dell'incubare italiano notiamo che è una prosecuzione dei significati affini a 'covare' che aveva l'incubare latino, e si appoggia ai tanti e vari significati specifici che il termine 'incubazione' ha sviluppato. L'amico disinvolto e amante della carne cruda incuba sempre nuovi parassiti; a dispetto delle prime caute previsioni dei medici il neonato non ha bisogno d'essere incubato; i creativi incubano un progetto che a maturazione darà grandi frutti; incubo un pensiero che darà una svolta alla mia vita.
Sempre un covare dentro. Sono le immagini semplici a generare le più grandi chiome di significati.
(Curiosità finale: l'incubare latino aveva anche il significato classico di dormire in un tempio per farsi arrivare rivelazioni o ispirazioni divine, o favori celesti. Ma oggi se ci provate il sagrestano vi caccia con la scopa, anche se glielo spiegate.)
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Sprezzatura

[sprez-za-tù-ra]
SIGN L'essere sprezzante; atteggiamento studiatamente disinvolto e trascurato, e ciò con cui tale atteggiamento si manifesta
derivato di [sprezzare], dal latino [pretium] 'pregio, valore', attraverso un ipotetico [expretiare].
Questa bella parola ha una sorte davvero straordinaria: in Italia è quasi del tutto negletta, mentre all'estero ruggisce, fra marchi d'imprese e blog e riviste di moda - percepita come portatrice di un concetto intraducibile, e vera cifra dell'italianità.
La sprezzatura (sull'origine del termine si diffonderà Lucia fra pochi capoversi) è ovviamente anche l'essere sprezzante: ti indispongo apposta con una sprezzatura al vetriolo, il collega mi ha risposto con una sprezzatura indecente e per vendetta gli faccio freddare il caffè. Senso forte, ma che non è il centro del successo globale.
La sprezzatura, a regola di Baldassarre Castiglione, è in genere l'atteggiamento studiatissimo, voluto e ricercato di piena disinvoltura, di naturale spontaneità, fino alla trascuratezza, volto a ostentare un'abilità e una sicurezza assoluta, che non richiede alcuno sforzo: giusto quello che la sprezzatura ha in sprezzo. È sprezzatura quella dell'amica che "Oh, non tocco un pianoforte da così tanto tempo..." e poi infila l'intera Appassionata di Beethoven nello sgomento generale; è sprezzatura quella dell'amico che con un'ora e mezza di cera, gel, cambi e stropicciamenti si costruisce una mise carismaticamente trasandata; una volta giocavo con amici a scagliare delle canne simili a giavellotti in un grande prato, arrivò un ragazzo, prese una canna, la scagliò a cinquanta metri e disse solo "era bilanciata malissimo" - e la sua era sprezzatura (seppi solo dopo che era un ex giavellottista professionista). La sprezzatura può anche essere ciò che manifesta questo atteggiamento: l'intervento dello storico è costellato di fascinose sprezzature.
Insomma, la sprezzatura ci parla di maniera.
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(Baldassarre Castiglione, Il cortegiano, libro I, cap. XXVI)

Per dir forse una nova parola, [occorre] usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte, [come se si agisse] […] senza fatica e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia: perché delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficultà, onde in esse la facilità genera grandissima maraviglia; e per lo contrario il sforzare e, come si dice, tirar per i capegli dà somma disgrazia e fa estimar poco ogni cosa, per grande ch’ella si sia.

Machiavelli e Castiglione scrivono quasi nello stesso periodo e sullo stesso tema, ma il focus è diverso: nell’uno il principe, nell’altro il cortigiano, ossia la persona comune.
E, sebbene Castiglione sia meno noto, gli si deve questo fortunatissimo neologismo, “sprezzatura”, usato per secoli in svariati campi. Oggi sicuramente non ne parliamo spesso, ma nella pratica lo usiamo tantissimo.
Quando vogliamo fare buona impressione, per esempio, adottiamo esattamente la tattica che Castiglione suggerisce: usiamo maniere cortesi ed affabili, ma facendo attenzione a non farle suonare affettate. E nella pratica sportiva, o musicale, l’ideale cui si aspira è proprio fare tutto in modo naturale, apparentemente senza sforzo. Persino quando guardiamo la televisione la sprezzatura è parte del nostro quadro mentale; infatti distinguiamo facilmente gli attori mediocri, perché si sente che stanno recitando.
Del resto un neologismo vero fa proprio questo: esprime un concetto reale, che tutti capiscono ma che è difficile spiegare con altri termini.
Ma allora perché Questa parola è caduta in disuso? Possono esserci tante ragioni. Sicuramente oggi diamo meno importanza alle maniere formali, il che è un bene e un male insieme. L’interazione sociale ha bisogno anche delle sue piccole finzioni, come la cortesia e la modestia di cui la sprezzatura si nutre.
Non solo, però. Per noi italiani la sprezzatura, si può dire, è parte del carattere nazionale. Infatti il buon gusto, e il desiderio di fare bella figura, sono tanto pervasivi che li diamo per scontati: finiamo così per avere un certo stile anche quando non ci sforziamo consapevolmente di ottenerlo. Perciò all’estero può capitare – come alla sottoscritta – di ricevere complimenti per un maglioncino di nessun impegno, scelto quasi senza pensarci.
Forse, allora, la sprezzatura è diventata a tal punto parte di noi che non la vediamo più, e per questo non la nominiamo. Il massimo della sprezzatura raggiungibile.
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