Monday, January 01, 2018

CAPODANNO 2018

 

La parola del primo giorno dell'anno è

Stupendo

[stu-pèn-do]
SIGN Che desta stupore, meraviglioso
dal latino [stupendus], gerundivo di [stupère] 'stupire'.
Ricordo di un professore padovano, che diceva "Nella cappella degli Scrovegni, col naso all'insù e con la bocca aperta, non si capisce se sei stupido o stupito". Questo è l'effetto dello stupendo.
Pianamente è ciò che desta stupore, per le sue qualità straordinarie - specie per una bellezza straordinaria; e questo 'che desta stupore' va visto perbene. C'è qualcosa che rapisce, nello stupendo, che azzittisce la mente, che rende stupiti e stupidi, che sbalordisce (rende balordo, ritarda): lo stupendo ha un alto valore estetico a posteriori, quando ci ripensiamo e lo qualifichiamo come tale, mentre nel momento in cui è percepito, solo, dilata il tempo, in una dimensione nuova. Una qualità che determina uno stato d'animo in cui perfino il pensiero fa silenzio.
Sei stupenda quando cammini verso di me a fianco di tuo padre o quando esci dalla doccia; è stupendo il discorso che udiamo da una persona saggia e ispirata; è stupenda la forza di una volta di pietra. Poi spesso viviamo lo stupendo come iperbole, anche ironica: "Hai ricevuto il mio regalo?" "Sì, è stupendo, grazie"; "Questo è il lavoro finito" "Stupendo, lo guardo subito"; "Avrei invitato altre otto persone a cena" "Stupendo!". Ma anche quando suona come una bonaria esagerazione - e comunemente così suona - non ci deve passare di mente la sua prima vocazione: un significato così potente da spazzare via la possibilità mentale di ogni altra qualificazione.
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(D. Buzzati , Storico e stupendo)

“Signore, il 1960 per te è stato un anno felice?”
“No”. […]
“Una schifezza d’anno, nel complesso?”
“Esatto.”
“Sarai contento che se ne vada, immagino”.
“No”.
“Tu sei un uomo assurdo, signore. […]”
“Mi ha fatto del male, è vero. Ma questo male è rimasto dentro di me, […] e mi nutre”.
“Ti nutre?”
“Sì. E poi, per brutto che sia stato, […] il 1960 è finito per sempre, non tornerà più, passassero pure diciassette miliardi di sestiquilioni di secoli, le cose di cui era fatto il 1960 non si ripeteranno più, […] erano uniche e perfette nella loro miseria e perciò sono già diventate lontanissime, piene di una loro misteriosa e romanzesca fatalità (che al momento mi sfuggiva). […]
Sì, il 1960, con tutti i suoi guai, è stato un anno bellissimo, qualcosa di storico e stupendo, che per tutta la vita ricorderò con amore.”

È facile criticare Capodanno. Già Leopardi affermava che l’uomo percepisce passato e futuro come illusoriamente piacevoli, solo perché sono lontani. Perciò festeggiamo il volgere dell’anno, senza realizzare che – come sosteneva Sartre – la nostra vita è sospesa su due nulla: ciò che non è più, e ciò che non è ancora.
Ma il ragionamento di Buzzati punta altrove. E mi ha ricordato un’osservazione dello psicologo Viktor Frankl: il passato, in realtà, è l’unica cosa che c’è. È fissato per l’eternità, non si può trasformare né eliminare. Perciò nel passato “nulla è irrimediabilmente perduto, ma tutto è irrevocabilmente salvato.”
Il tempo, infatti, ci presenta molte fuggevoli possibilità; le nostre scelte ne realizzano alcune, e condannano le altre all’inesistenza. Compito dell’uomo, dunque, è trasformare il passeggero in eterno, rendendo reale ciò che era solo possibile.
Questa è la rocambolesca avventura della libertà, che davvero getta sugli eventi un’aria “romanzesca”. Perciò l’anno passato è anzitutto “Storico”. Gli eventi non erano necessari a priori; ma, diventando reali, hanno assunto un carattere di necessità, e su di loro si sono edificati gli eventi successivi. Sono entrati in una storia e, così facendo, hanno acquisito un significato.
Inoltre le esperienze, anche le più dolorose, sono diventate parte della persona che le ha vissute, l’hanno “nutrita”. Frankl stesso sosteneva che l’uomo, per realizzarsi appieno, dovesse passare anche attraverso la sofferenza (e lui, essendo stato internato in lager, ne sapeva qualcosa).
Dunque, pur “nella loro miseria”, le cose accadute sono “uniche”, poiché irripetibili e irrevocabili; e sono “perfette” ossia compiute, significative. Perciò l’anno passato è anche “stupendo”, cioè desta stupore per la sua stessa esistenza.
G. K. Chesterton amava dire che tutte le cose sono scampate per un soffio a un naufragio, come i pochi oggetti salvati da Robinson Crusoe. Ciascuna di loro avrebbe potuto perdersi nell’oceano del non essere; e invece c’è. Ricordiamocelo dunque mentre ci accingiamo a costruire un altro, stupendo, anno nuovo.
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Miniatura



mi-nia-tù-ra
SignArte pittorica della decorazione di manoscritti e libri; opera compiuta con tale arte; modellino; nell'espressione 'in miniatura', in scala ridotta ma ugualmente nitido, ricco o funzionale
derivato di miniare, uguale in latino, col significato proprio di 'tingere col minio', derivato di minius.

A volte abbiamo i concetti fuori asse. Se pensiamo alla miniatura pensiamo a qualcosa di piccolo: addirittura, miniaturizzare significa rimpicciolire. Ma nonostante l'assonanza, 'miniatura', 'miniaturizzare' e famiglia non hanno a che fare col minimo, col minuto o col minuscolo. Hanno a che fare col minio.
Il minio è un ossido di piombo piuttosto raro in natura, il cui nome è legato al fiume Miño, il maggiore della Galizia, regione spagnola lussureggiante d'acqua, che passando in Portogallo sbocca all'Oceano. Fatto curioso, lungo il corso del Miño non ci sono giacimenti rilevanti di minio. Possiamo dire che il minius latino in origine indicò il cinabro (da cui pure si ricava un pigmento, il vermiglione), e solo poi il minio che conosciamo oggi. Secondo Isidoro di Siviglia addirittura fu il fiume galiziano a prendere il nome del minerale, del pigmento. Ma spesso i riferimenti geografici inerenti ai nomi sono sedimentazioni di secoli di suggestioni, associazioni ripetute, fake news, che finiscono volentieri per immortalare un nesso fantasioso.
Comunque dicevamo che il minio, massiccio, scaglioso, è polverizzabile in un pigmento dal rosso acceso - rosso di piombo, rosso di Saturno - usato già in epoca romana, e che ebbe un uso così prestigioso nell'arte medievale da fare del miniare (cioè del pitturare col minio) metonimia e antonomasia dell'intera pittura ornamentale che a lungo ha impreziosito manoscritti e libri. Ma solo certi generi di questa pittura ornamentale - fine e meticolosa, paziente arte certosina - spiccavano (specie agli albori) per le ridotte dimensioni delle sue rappresentazioni: dopotutto, alcune miniature che troviamo in codici antichi sono decisamente grandi. Eppure è la piccolezza il tratto della miniatura che oggi ha prevalso. Così la miniatura diventa, oltre a una peculiare arte pittorica e all'opera di quest'arte, anche il modellino in scala ridotta: ha fatto col Lego una miniatura del Millennium Falcon, per il progetto d'arte costruisco una miniatura del duomo di Orvieto. E nell'espressione 'in miniatura' il nitore e la nitidezza dell'arte miniatoria trova un giusto spazio: ciò che è 'in miniatura' non perde né dettaglio, né ricchezza, né funzionalità rispetto all'originale o al modello di dimensioni normali.
Meraviglioso come la miniaturizzazione dei dispositivi tecnologici nella corsa alle stelle prenda il suo nome dal tratto preciso, concentrato del pittore che nel silenzio dello scriptorium intinge il pennello nel minio e adorna il manoscritto.
Illustrazione di Celina Elmi.


ALDO VINCENT
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