Saturday, January 13, 2018

13 gen

La parola del giorno è

Decussare

[de-cus-sà-re (io de-cùs-so)]
SIGN Incrociare formando una X, disporre a X
derivato di [decussis] 'moneta del valore di dieci assi', composto da [decem], indicato in numeri romani con [X] e [asses] 'assi', unità monetaria.
Una parola utile e sorprendente. Ha una faccia familiare, ma in realtà non è così nota.
Possiamo dire che è un sinonimo di 'incrociare': infatti significa intersecare a forma di X (è un transitivo). Iniziamo a fare le parti della torta decussando i tagli, ci incontriamo dove il sentiero decussa il torrente in un piccolo guado, e decussiamo tratti lievi di matita per segnare sull'indice i racconti migliori del libro.
L'incrociare, il fare una croce e simili sono espressioni molto battute nella nostra lingua, e si portano dietro dei grossi usi soliti che pesano ineluttabili sui loro significati: incrociare s'incrociano strade, sguardi, spade, persone. Se parlo del sentiero che incrocia il torrente, il riferimento un po' prosaico è alla viabilità. E la croce si fa, spesso con un certo carico emotivo, sul giusto o lo sbagliato, sul presente o l'assente. Se faccio una croce sui racconti nell'indice, il gesto è più pesante. Insomma, nel decussare questo carico non c'è, e presta tutta la grazia di un'immagine vergine e poetica. Grazia testimoniata dagli usi variegati impiegati in biologia, a descrivere incroci di strutture viventi.
Immagine peraltro tanto umile quanto fondamentale: nel decussare c'è un piccolo dieci, un dieci romano, segnato come X. Il decussis fu una moneta che valeva dieci assi e aveva una X su entrambe le facce, ma in generale fu tanto la decina quanto il punto d'intersezione dei bracci di quella X che dieci significava.
Una risorsa splendida, quando si voglia guardare in maniera meno usata il gesto o la disposizione dell'incrocio.
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Zeugma

[zèug-ma]
SIGN Figura retorica che consiste nel far dipendere da un solo termine due o più termini, di cui uno solo è appropriato
dal greco [zeũgma] ‘legame’.
«Non la corda, ma il ben saldo ponte di navi nel mare o nel fiume», dice Fozio, patriarca di Costantinopoli del IX secolo, a proposito dello zeugma nel suo Lexicon. Un solido ponte, quindi, fatto per unire il largo alla terraferma, le due sponde di un fiume o, come nel nostro caso, parole apparentemente tutt’altro che vicine tra loro.
Lo zeugma, dunque, è un’ellissi – l’omissione di qualcosa nella frase – che porta a delle incongruenze semantiche o sintattiche. Esse sono delle vere e proprie illogicità, ma alcune sono tanto spontanee che la loro irragionevolezza passa in sordina. In altri casi, invece, per quanto il significato strida, l’estetica delle parole sovrasta il non-senso, e l’esempio che segue è uno di questi.
«Poi ch’ella in sé tornò, deserto e muto, / quanto mirar poté, d’intorno scorse»: è la Gerusalemme Liberata di Tasso, che tra uno scontro e l’altro parla qui di scorgere il deserto e il muto. Parafrasando, “tornata in sé si guardò intorno, ma soltanto vide deserto e silenzio”, e fino al deserto ci siamo. Ma il silenzio? Ovviamente, di solito, non lo si vede, ma in questo caso uno zeugma unisce il verbo “scorgere” a “muto”. Quest’incongruenza è semantica: ci saremmo aspettato un verbo come “udire”, “sentire” e simili, ma questo verbo è stato omesso, e il suo oggetto (il “muto”) si lega a un altro verbo.
Dello stesso tenore è l’esempio che possiamo trarre dall’Infinito leopardiano: «Ma, sedendo e mirando, interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete». Ancora una volta, dei silenzi tanto profondi da addirittura vederli. A questo punto è chiara la più comune manifestazione dello zeugma: negli esempi citati abbiamo l’ellissi di un verbo che indica una sensazione (in entrambi i casi un verbo uditivo) e il suo oggetto che di conseguenza di lega a un altro verbo che indica un’altra sensazione (legato alla vista) e che ha già un suo proprio oggetto, a lui conforme dal punto di vista semantico (nel primo esempio il “deserto”, nel secondo gli “interminati spazi”). Abbiamo a che fare con delle sinestesie: associazioni di parole appartenenti a sfere sensoriali diverse. Ed è proprio nell’incontro tra ellissi e sinestesia che troviamo un’enorme quantità di zeugmi.
Versi a parte, tuttavia, lo zeugma è molto più comune e semplice di quanto sembri: se dico «io amo l’Odissea, essi invece l’Iliade» sto generando un’incongruenza sintattica. Strizzate gli occhi e vi accorgerete che omettere il verbo “amano” e far dipendere tutto da “amo” è come usare un verbo alla prima persona singolare per un soggetto plurale: «io amo l’Odissea, essi invece amo l’Iliade», assolutamente scorretto e perfetto esempio di incongruenza sintattica. In ambito quotidiano lo zeugma è quasi sempre un’incongruenza di questo tipo: «questo è per te, questi per loro»; «I miei fratelli son preferiti dalla nonna, io dal nonno» e via dicendo.
Ed è grazie allo zeugma che queste incongruenze hanno – paradossalmente – senso! Prendo un verbo e faccio dipendere da lui due oggetti, uno dei quali non gli si collega (semanticamente o sintatticamente) bene. È tutta una questione di immagini e legami inaspettati – e quando siamo in sconfinati mari di parole o travolgenti torrenti di concetti, come nei mari e fiumi di Fozio ecco un ben saldo ponte su cui camminare in tranquillità: lo zeugma.

 
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Abbarbicare

[ab-bar-bi-cà-re (io ab-bàr-bi-co)]
SIGN Mettere radici, attaccarsi, stabilirsi in un luogo
derivato di [babricare], a sua volta da [barba] nel senso di 'radice', col prefisso [ad-] che indica avvicinamento.
Di questa parola è splendida la direzionalità: ci dipinge un mettere radici verso, su.
Naturalmente nasce con dei significati botanici: il rosmarino ha abbarbicato bene sulla proda, sicché non ci saranno più smottamenti, l'edera ha abbarbicato sul palazzo e gli dona un fascino gotico. (Sì, 'abbarbicare' può essere usato come semplice intransitivo, anche se più comunemente si usa come intransitivo pronominale, 'abbarbicarsi'.)
L'immagine del mettere salde radici ha ovviamente invitato degli usi figurati, per cui in genere l'abbarbicarsi diventa l'attaccarsi, l'avvinghiarsi a qualcuno o a qualcosa, e anche lo stabilirsi in un luogo. La festa impazza, ma la bambina timida se ne sta abbarbicata al babbo; la sera mi abbarbico al divano e nemmeno un telecomando troppo lontano mi schioda - c'è una televendita? va benissimo; il vecchio professore rimane abbarbicato a concezioni superate; e mi abbarbico al paesello in campagna con sovrano sprezzo del cielo aranciato della città.
Una parola che a partire dall'umile radice, diretta a stringere, ci permette dei significati profondi e intensi, e volentieri giocosi.
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