Monday, January 22, 2018

salutare



La parola del giorno è

Salutare

[sa-lu-tà-re (io sa-lù-to)]
SIGN Rivolgere a una persona formule o gesti di amicizia, di rispetto, nel momento in cui la si incontra o la si lascia; accogliere; abbandonare; fare visita; acclamare
dal latino [salutare] 'augurare salute', ma anche 'acclamare, visitare, adorare', derivato di [sàlus] 'salute'.
L'augurio convenevole che riguarda la salute non ci stupisce: dal 'salve' allo 'stammi bene' ne usiamo comunemente una batteria notevole. Ed è così da tempo immemore. Non stupisce quindi che l'intero genere di formule e gesti con cui accompagnamo l'incontro e la separazione porti il nome del salutare.
Ciò che invece è stupendo è l'articolata ricchezza di significati di questo verbo al di là della formula e del gesto di saluto, polarizzati giusto nei momenti del ritrovo e del commiato. Saluto la primavera con gioia e buoni propositi, saluto l'arrivo degli ospiti, la città saluta i soccorritori: così è un accogliere, fino all'acclamazione. Saluto la compagnia quando mi appresto a un lungo viaggio, saluto la prospettiva ormai sfumata: così è un dare l'arrivederci o l' addio.
Il nocciolo invariabile del significato di 'salutare' sta nel suo essere un atto di rispetto, di riconoscimento: nel salutare vediamo e diamo valore a chi o ciò che salutiamo. In questo senso emerge con forza il 'salutare' nel senso di 'visitare': se passo a salutare (momento breve, in cui giungo e riparto subito), il mio è un atto di cortesia semplice e intensa, se non di omaggio. Anche se, in effetti, questo verbo ha il profilo di un' enantiosemia in cui alternamente coesistono l'arrivo e l'abbandono: il giocatore saluta la nuova stagione calcistica sia quando firma il contratto nella fremente aspettativa generale sia quando gli saltano i legamenti.
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(Dante, Ne li occhi porta la mia donna Amore, nella Vita nova)
Ne li occhi porta la mia donna Amore,
per che si fa gentil ciò ch’ella mira;
ov’ella passa, ogn’om ver lei si gira,
e cui saluta fa tremar lo core,
sì che, bassando il viso, tutto smore,
e d’ogni suo difetto allor sospira:
fugge dinanzi a lei superbia ed ira […]
Quel ch’ella par quando un poco sorride,
non si pò dicer né tenere a mente,
sì è novo miracolo e gentile.

La Vita Nova, opera giovanile, è in sostanza l’antefatto della Commedia, poiché narra la nascita dell’amore per Beatrice.
Dante la incontra la prima volta a nove anni, e subito ne è innamorato perso. Per anni, però, la ammira a distanza, sempre impacciatissimo. È anche un po’ ridicolo, povero Dante, tanto che le amiche di Beatrice si prendono volentieri gioco di lui.
Alla fine capisce che il suo amore non potrà mai essere ricambiato; ma in fondo poco importa. Esso rimane un’esperienza essenziale e trasformante: diventa il perno di una “Vita nuova”, improntata a una lode grata, stupita, e totalmente gratuita. Questo sonetto ne è un esempio.
Beatrice diventa così l’emblema di una bellezza salvatrice, umana e divina al tempo stesso. La sua anima è tanto pura e autentica che anche un semplice saluto sulle sue labbra non è più una convenzione. È veramente un augurio di salute: ossia una partecipazione alla sorte dell’altro, nutrita di rispetto e tenerezza. Diventa, persino, uno strumento di salvezza: rende i cuori più “gentili”, e li fa vergognare dei propri difetti. Perciò ogni uomo prima si volta a guardare Beatrice e poi, ricevuto il suo saluto, abbassa gli occhi impallidendo (“smore”), con insolita timidezza.
Certo, è una descrizione idealizzata, piena di topoi letterari. Ma è anche nutrita dalla diretta esperienza di un innamorato timido, per il quale il saluto – unico filo che lo legasse all’amata – ha assunto, nella sua banalità, un peso specifico enorme.
Peraltro anche per noi sarebbe interessante recuperare il senso forte del “buongiorno” che diciamo usualmente; e portare così, ovunque andiamo, l’amore “negli occhi”.
Non parliamo poi di quando al saluto si aggiunge un sorriso. Lì lo sguardo innamorato – e perciò più acuto – di Dante coglie una bellezza tale che non sembra appartenere a questo mondo. Un “miracolo” impossibile da spiegare a parole, ma che il cuore riconosce subito.
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Dimergolare

[di-mer-go-là-re (io di-mèr-go-lo)]
SIGN Rimuovere un chiodo agitandolo; scuotere; barcollare, tentennare
dal latino [demergulare], derivato da [merga] 'forcone'.
Non siamo davanti a una parola che scoppia di vigore, forte di un uso vivace e diffuso. Se le parole morissero, anzi, potremmo dire che questa non si sa nemmeno più dov'è sepolta. Ma le parole non muoiono, al massimo vengono scordate, e questa è meravigliosa - di una meraviglia molto specifica.
Ci sono centinaia di gesti minutissimi che compiamo senza dar loro un nome. Questo è uno di quelli, ma si può rimediare: davanti a qualcosa (pensiamo un chiodo) rimasto conficcato (pensiamo nel legno) cerchiamo di rimuoverlo con la stretta delle dita o con una pinza. Il movimento che facciamo, specie se non c'importa molto di rovinare il materiale in cui è confitto, è il dimergolare. Una serie di movimenti da una parte all'altra, o circolari, che lo smuovono e gli allargano lo spazio perché possa essere divelto. Un movimento che abbiamo naturalmente nelle mani, più che nelle parole.
Ebbene, pare che questo verbo derivi dal latino merga, il forcone, il tridente che si usa per i covoni: infilate le punte nel fascio di spighe, per poi posarlo si deve scrollare il forcone - e di qui nasce il dimergolare, che in riferimento al chiodo trova un uso speciale rispetto a questo generale scuotere. Dimergolo il mestolo in cui sono rimaste infilate rondelle di porro, dimergolo la trivella a mano che resta incastrata nell'argilla, arrivato il mio turno dimergolo le freccette e tiro con audacia ("Non si preoccupi signora, il sangue smette di uscire subito"). A questo scuotimento si accosta poi il significato di tentennare, di barcollare, così come si fa tentennare il chiodo: si piazza il digestivo della nonna sul tavolo e venti minuti dopo tutti dimergolano allegramente; gli scaffali montati male dimergolano pericolosamente ogni volta che qualcuno ci appoggia sopra qualcosa; e chi non è avvezzo dimergola sul terreno accidentato.
Non so come ho potuto farne a meno.
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