Friday, January 07, 2022

RACA - TEREBRANTE -

 

[rà-ca]

SIGN Voce che compare nel Vangelo secondo Matteo come insulto; ingiuria che sottolinea la stupidità e la pochezza di una persona

adattamento, attraverso il greco neotestamentario [rakà] dalla parola aramaica [reqā], cioè vuoto, stupido, da [rīq], ovvero vuoto, forse derivato da una parola accadica o da una parola caldea.

Questa parola si trova nel Vangelo secondo Matteo, e in alcuni alti esempi letterari — ma può avere una sua ricercata utilità. Andiamo con ordine e partiamo dal brano neotestamentario che la contiene e che ha dato il la al concerto.

Matteo, 5, 22,: «chi dirà al suo fratello ‘raca’, sarà sottoposto al sinedrio». Bene, ma non molto chiaro: che cosa si intende con ‘raca’ e perché pronunciarlo è cosa sì grave da meritare il giudizio di fronte al tribunale? Guardiamo al contesto: siamo nel pieno del Discorso della Montagna, Gesù ha appena enunciato le beatitudini («Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati. [...]») e ora parla della nuova legge di amore e rispetto reciproco che è venuto a dare agli uomini. Pochi versetti dopo pronuncerà il famoso ‘porgi l’altra guancia’. Insomma, siamo nel cuore del messaggio cristiano — ed è uno dei motivi per cui questa rara parola ha continuato a girare.

‘Raca’ è una voce aramaica, di probabile origine accadica o caldea, non si sa con certezza, che molto semplicemente significa ‘stupido, testa vuota’. In breve, Cristo dice che chi insulta il proprio fratello dovrà rendere conto di questo atto d’odio, perché il peccato, come viene espresso nella parte della messa chiamata Confiteor, avviene in “pensieri, parole, opere e omissioni”. E sì, nel discorso di Gesù l’offesa è considerata estremamente grave, perché essa corrompe lo spirito e apre la porta che conduce poi dalla parola all’atto.

Raca è una parola che fin da subito non è stata tradotta: è stata lasciata così dai Settanta che volsero la Bibbia in greco e tale è rimasta nella Vulgata. In italiano non è entrata da sola, ma si è accomodata in locuzioni ricorrenti. La ritroviamo infatti in scrittori del calibro di Pascoli e Carducci, addirittura Mazzini, sempre in espressioni come ‘gridare raca di qualcuno’, ‘dire raca a qualcuno’.

Ecco perché, certamente, come insulto in sé non è dei più efficaci: l’offesa, per toccare le corde più sensibili e andar dritta al punto, deve essere immaginifica, concreta, deve saper parare davanti agli occhi il brutto e lo squallido, prendere i capelli. Raca… semplicemente a noi non dice nulla!…


[te-re-bràn-te]

SIGN Insetto imenottero dotato di ovopositore perforante; di dolore profondo e penetrante

voce dotta recuperata dal latino [terebrans], participio presente di [terebràre] ‘forare’, sottinteso ‘con la tèrebra’; [terebra] significava ‘succhiello’, ed è derivato di [tèrere] ‘sfregare’ .

Avvicinarsi a una parola terribile mette spesso a disagio: nei vocabolari non ci sono forse abbastanza parole gradevoli che ci permettono di muoverci da corolla a corolla come api spensierate? Perché incupirsi?
La risposta è piuttosto semplice e ha una radice solida: molte parole terribili servono precisamente a dissipare il cupo, a misurarlo. Non si contano le fiabe tradizionali in cui spiriti nocivi vengono domati scoprendone il nome, e l’allegoria popolare nasconde una verità profonda.


 

1 comment:

gardenerulmen said...

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