Sunday, February 10, 2019

TO'

La parola del giorno è

To'

[tò]
SIGN Tieni!, prendi!; esclamazione di meraviglia
troncamento di [togli], imperativo del verbo [togliere].
Sollevo e piego il braccio sinistro, la mano destra schiocca nel cavo del suo gomito; appena rientri dalle ferie ti getto sulla scrivania il pacco di lettere che dovevi gestire tu; all'amico che per divertimento mi ha fatto fare una figura tremenda tiro - a scherzo ma non troppo - un calcio nel didietro; alla festa incontro la persona sgraditissima che sapevo avrei incontrato ma voglio mostrarmi sopreso di incontrare; alzo il telefono e aggrotto la fronte vedendo chi mi ha scritto dopo sette anni che non ci sentiamo. To', dico.
Non ci si aspetta di leggerci dentro un 'togli!': che cosa ti comando di togliere? In effetti il verbo 'togliere', nei secoli, si è decisamente striminzito: il tollere latino è uno dei verbi più ricchi e complessi del vocabolario, il nostro 'togliere' ha la fiammella accesa solo sui significati di rimuovere, privare - ed è questo che ci disorienta. C'è stato un tempo in cui il 'togliere' era un prendere, un ricevere, un accogliere (e aveva una miriade di altri significati che vedremo un'altra volta); perciò un imperativo come 'togli!' aveva il senso di un 'prendi!', che è rimasto nel nostro to'.
Ora, in molti casi quest'ingiunzione di prendere si capisce in modo trasparente: da quando faccio il ben noto gesto a quando ti getto qualcosa in modo sbrigativo o scortese, a quando mi prodigo in scappellotti e calci. Ma è molto curioso quando manifesta sorpresa, meraviglia («To', guarda chi c'è»): lì che cosa c'è da prendere? Forse questa parola ci riporta anche sulla suggestione del mondo-mucchio, per cui l'evento che ci fa alzare il sopracciglio entra nella nostra considerazione così come si prende, si coglie uno stelo da un mazzo - ma soprattutto c'è da accogliere. L'evento meraviglioso, sorprendente, dal momento stesso del to' viene calcolato, viene accettato. Riformulare il to', dicendo ad esempio «Prendi, guarda chi c'è», ci rende l'immagine bellissima di una realtà inattesa che ti viene messa in mano. E spesso il to' non intende rivolgersi davvero ad altre persone: può essere generico, ma può anche essere l'interiezione con cui ti metti in mano la sorpresa, magari anche con ironia salata.
Nota finale di grafia: qualcuno seguendo la diatriba del 'qual' che vuole o non vuole l'apostrofo avrà imparato che poiché troncato 'qual' si scrive senza apostrofo - mica c'è un'elisione. Niente «Qual'è», dicono i dotti con sicurezza. Ebbene, non tutti troncamenti esiliano l'apostrofo: to' è classificato come troncamento ma per lui l'apostrofo va bene (come per po' e mo'). Peraltro to' si trova registrato anche come tò, e toh. Qualcuno potrebbe sospettare che le eccezioni facciano scricchiolare le regole più di quanto le confermino.
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Desolare

[de-so-là-re (io dè-so-lo)]
SIGN Affliggere, addolorare profondamente; spopolare, devastare
dal latino [desolàre] 'abbandonare, lasciare solo, rendere deserto, composto di [de-] 'da' e [solus] 'solo'.
Ancora una volta un participio passato ha più successo del resto del verbo - e ha acquistato la dignità autonoma di aggettivo. Ma guardiamolo tutto, coi suoi parenti: qui l'etimologia dà una mano sorprendente a capire la cifra del desolare.
D'acchito lo accostiamo al devastato, e quindi potremmo indovinare un legame ideale col 'radere al suolo', ma il percorso è più sottile: il desolare ci parla di solitudine. Recuperato dal latino nel XIII secolo, il desolare lì aveva giusto i significati di abbandonare, lasciare solo, e riferito a luoghi di spopolare, lasciare deserti. Straziante come l'immagine del 'solo' sia rinforzata da un 'de-' di allontanamento in modo così essenziale.
Noi non colleghiamo più il desolare alla solitudine, almeno in superficie; ma nel significato di addolorare profondamente, di affliggere, stende un colore che non sa di demolizione, quanto piuttosto di impotenza, di abbandono. Non mi desola un dolore fisico, non mi desola un'ansia condivisa sul lavoro; mi desola un lutto, un fallimento, ciò che non riesco a comunicare. La desolazione di un teatro può essere a teatro vuoto o a teatro strapieno, dipende se c'è o meno comunione nel suo gioco: il teatro può non essere desolato e anzi essere traboccante di comunicazione durante le prove con le voci che si perdono nel buio, può essere desolato alla prima, manierata e affollata, in cui nessuno partecipa della narrazione. Un bosco, esteso ai confini ultimi della civiltà, non è desolato, non desola - anzi.
È una parola ricca e precisa: il desolare è l'infliggere un dolore incomunicabile, solo, un devastare spopolando, senza che resti voce. Un dolore che è inutile gridare.
Come stona, come diventa graffiante, quando viene usato con leggerezza, con ironia. «Desolato, non la posso aiutare
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