Tuesday, March 31, 2020

ordinario

[or-di-nà-rio]
SIGN Comune, normale, regolare; privo di qualità particolari, dozzinale, insignificante
dal latino [ordinarius] 'conforme all'ordine', derivato di [ordo] 'ordine'.
Animale, capitolo, curiosità, minestra, umile, pietanza: parole che saremmo tentati di definire ordinarie, perché non sembrano celare alcuna opacità e nessuno va mai a cercarle sul vocabolario. Ma se grattiamo appena la loro frusta superficie, ci aprono squarci di pura consapevolezza. Forse non esistono parole ordinarie, ma solo persone che le usano in modo ordinario. In ogni caso, tra quelle che lo sono meno c’è senz’altro ordinario, per l’appunto. Quando impariamo che in tedesco una ordinäres Wort non è una ‘parola ordinaria’ bensì scurrile, sconcia, a tutta prima ci meravigliamo. Ma pensandoci bene, non è altrettanto curioso, in italiano, che ‘professore ordinario’ sia una qualifica assai gratificante, mentre ‘persona ordinaria’ decisamente no?
Eppure, a considerare il tronco da cui germoglia l’ordinario, è difficile immaginarne una derivazione men che positiva. Per i Latini, ordo (accusativo ordinem) era in origine la disposizione regolare dei fili nella trama, poi la fila, l’allineamento, la successione ordinata e infine l’ordine tout court. In campo militare, gli ordini furono i ranghi, le schiere, quindi chi le comandava e da ultimo, per facile metonimia, i comandi che venivano impartiti. Giacché nell’esercito i ranghi sono ordinati gerarchicamente, in seguito questo senso gerarchico della parola si estese a tutta la società, per cui furono detti ordini anche i gruppi sociali, le classi (fino ai tre ‘ordini’ o ‘stati’ dell’Ancien Régime), oltre a sodalizi particolari come gli ordini religiosi e cavallereschi.
Ordinarius, di conseguenza, in latino valeva ‘conforme all’ordine’ e quindi regolare, normale (anche il nostro docente ‘ordinario’ viene da qui, in quanto parte stabile e non avventizia di un sistema), mentre extraordinarius era l’insolito, ciò che esulava dalla normalità. In teoria, quindi, non vi è giudizio di valore in alcuno dei due: lo straordinario, in quanto meramente inusitato, di per sé non è né buono né cattivo. Non stupisce tuttavia che le cose, in seguito, abbiano preso un’altra piega, giacché lo stra-ordinario, ciò che è fuori del comune, ai nostri occhi ha molto più valore di ciò che è consueto, routinario, abituale. Anche quando non aneliamo al portento, vogliamo più della solita minestra. È da qui, per contrasto, che iniziano le sfortune dell’ordinario.

[dat-ti-lèt-ti-co]
SIGN Persona che ha una tendenza non volontaria a colpire i mobili con le dita dei piedi
voce dotta recuperata dal greco [dachtyliptikos], da [dàktilos] 'dito' e [lebo] 'prendere' (cfr. epilessia, catalessi).
Che sia sfortuna, che sia più o meno inconscio masochismo, tutti siamo stati almeno una volta nella vita dattilettici. Riusciremo dunque, senza eccessivi sforzi, ad empatizzare con quella sensazione di impotenza che assale il dattilettico nel momento in cui sa di aver colpito, ad esempio, il comodino e sente che da un momento all'altro il dolore salirà e causerà non poche imprecazioni, lacrime trattenute e saltelli sul posto.


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